Il dovere tra desiderio e morale

 

Grazie al pensiero di Kant, il dovere acquista un valore ben più grande rispetto a quello di mero metodo coercitivo, utile ad imporre un comportamento. Allo stesso tempo però sembra che il filosofo tedesco non abbia riconosciuto l’altrettanto imprescindibile necessità per l’individuo del “desiderio”. 

 

di Simone Basso

 

Vincent Van Gogh, "Seminatore al tramonto" (1888)
Vincent Van Gogh, "Seminatore al tramonto" (1888)

 

Nell’approcciare il tema della morale, uno tra i primi autori a cui si pensa è sicuramente il filosofo Immanuel Kant. Egli ha affrontato la questione principalmente in tre delle sue celebri opere Fondazione della metafisica dei costumi, Critica della ragion pratica e Metafisica dei costumi

 

Kant, nella Critica della ragion pratica, ha apportato un importante contributo nella riflessione riguardo cosa sia il “desiderio”. Diversi pensatori del suo tempo infatti erano soliti distinguere una facoltà di desiderare superiore, da una facoltà di desiderare inferiore; tale distinzione, a detta loro, derivava dalla fonte da cui la sensazione del piacere traeva origine: per i desideri “inferiori” tale origine era nei sensi, per quelli “superiori” nell’intelletto. Kant supera questa credenza esplicitando l’unico criterio a cui ogni desiderio non può che riferirsi: la sensazione del piacere. Egli vanifica la pretesa di distinguere i piaceri inferiori o superiori a seconda della loro origine, facendo notare come ogni decisione dell’individuo venga presa sulla base della previsione del piacere che ne può derivare – ovvero del grado di preferibilità che l’individuo stesso ravvede in quella scelta –, non a seconda della provenienza da cui quel piacere proviene. Come negli esempi che lui stesso riporta, l’individuo trovandosi nella situazione di dover scegliere tra soddisfare un piacere dei sensi, ad esempio mangiare una pietanza, e un piacere dell’"intelletto", ad esempio, arrivare puntuale ad un convegno, egli nel decidere opterà per quella scelta che riterrà preferibile in base alla valutazione del piacere che prevede ne derivi, la cui intensità è determinata dall’insieme di tutti quei fattori (emotivi, sensibili, ecc…) che influiscono nel suo stato d’animo. Pertanto, come descrive nella Critica della ragion pratica, la scelta non è compiuta a seconda dell’origine, sensoriale o intellettuale, da cui il piacere proviene.

 

« Le rappresentazioni degli oggetti possono pur essere diverse, possono essere rappresentazioni dell’intelletto e anche della Ragione in contrapposizione alle rappresentazioni dei sensi; tuttavia, il sentimento del piacere, per cui soltanto propriamente costituiscono il motivo determinante della volontà (il diletto, la contentezza che se ne spetta […]) è della stessa specie, non solo in quanto può essere sempre soltanto conosciuto empiricamente, ma anche in quanto agisce su una sola e medesima forza vitale, che si manifesta nella facoltà di desiderare, e in questa relazione non può essere differente, fuorché nel grado, da ogni altro motivo determinante. Altrimenti come si potrebbe far un confronto rispetto alla quantità fra due motivi determinanti affatto differenti rispetto al modo di rappresentazione, per preferire quello che muove di più la facoltà di desiderare? Un medesimo uomo può restituire, senz’averlo letto, un libro per lui istruttivo, che gli viene tra mani solo una volta, per non lasciare la caccia; può andarsene durante un bel discorso per non giunger troppo tardi a pranzo; lasciare una conversazione sensata, che del resto egli apprezza molto, per mettersi alla tavola di giuoco; perfino respingere un povero, che del resto egli ha piacere di beneficare, perché non ha denaro in tasca più di quel che gli abbisogna per pagar l’ingresso alla commedia. Se la determinazione della volontà si fonda sul sentimento del piacere o del dispiacere che egli si aspetta da una cosa, gli è affatto indifferente il modo di rappresentazione mediante il quale viene affetto. »

 

Questa facoltà di desiderare, secondo Kant, partecipa alla determinazione della volontà, insieme alla Ragione, ad altri cosiddetti principi pratici (quali gli istinti, le emozioni, le prescrizioni) e a quelli che lui chiama imperativi. L’imperativo è «una regola che viene caratterizzata mediante un dovere esprimente la necessità oggettiva dell’azione». Secondo Kant tale regola è il comando che la Ragione impartisce alla volontà del soggetto. Egli distingue, com’è noto, due tipi di imperativi: ipotetici e categorici. Quelli del primo tipo sono condizionati dalla volontà del soggetto di realizzare un certo scopo, essi cioè indicano i comportamenti che devono venir messi in atto per fare in modo che si concretizzi un certo obiettivo desiderato. Quelli del secondo tipo invece, imperativi categorici, sono, per Kant, i comandi che non dipendono dalla volontà di soddisfare questo o quel desiderio, bensì sono espressione della Ragione e si impongono all’individuo come un dovere che necessita di essere rispettato; ciò significa che un imperativo è categorico quando esprime una regola a cui il soggetto è chiamato ad attenersi sempre, ovvero incondizionatamente dalla situazione in cui si trova. Proprio su questa idea che la Ragione – nella sua forma pura denominata legislazione universale – determini una volontà dell’individuo indipendente da ogni condizione empirica, si fonda il concetto kantiano di morale. Kant sostiene infatti che sia proprio il dovere espresso dall’imperativo categorico, e quindi dalla Ragione al di là di ogni condizionamento empirico, a dover determinare l’agire secondo morale degli individui. Con l’espressione “al di là di ogni condizionamento” si vuole proprio sottolineare il carattere universale che l’agire deve perseguire per poter essere considerato morale. Per il filosofo tedesco questo genere di imperativo può essere giudicato tale solo in virtù della sua forma, ovvero del dovere imprescindibile con il quale si presenta al soggetto, e non del suo contenuto. Non è la volontà empirica – ad esempio l’obiettivo di fare del bene al prossimo –, a far sì che un’azione possa essere considerata morale, bensì è il tentativo del soggetto di rispettare un dovere universale e di agire secondo Ragione, a rendere quell’azione, morale. È questa caratteristica a certificarne il carattere universale, ovvero la sua validità per tutte le volontà; al contrario i principi pratici e gli imperativi ipotetici, possono differire a seconda del soggetto, e quindi non possono valere universalmente. Da qui deriva la celebre massima « agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale ».

 

Rispetto a quanto detto fino ad ora può essere messo in evidenza un contributo importante apportato dal pensiero di Kant, ma anche un limite. 

 

Un contributo del filosofo con questo pensiero è quello di aver riconosciuto nel dovere un attributo universale. Ogni scelta è compiuta all’interno di uno specifico contesto e in un determinato insieme di condizioni; ciò però non rende il valore che con quella scelta si vuole esprimere, relativo solo a quell’occasione, ma al contrario contribuisce al tentativo di affermare, in quella scelta, un dovere il più possibile valido universalmente, in quanto arricchitosi della propria applicazione concreta in quelle specifiche condizioni. Nessuna scelta di un individuo può essere pensata al di fuori dell’universale e dunque del dovere che il soggetto nel suo agire afferma. Il dovere, a questo punto, non viene più pensato come appartenente ad una determinata morale (religiosa, civile, culturale ecc..), non è più un attributo proprio di determinate regole, né lo “strumento” coercitivo utile a far sì che esse vengano rispettate; ogni azione che vuole essere morale, non può non considerare l’universalità che in essa è contenuta e si esprime. Di conseguenza, grazie a Kant, non è più possibile pensare ad una morale a prescindere dall’intenzione per la quale si mette in atto, giacché per essere morale l’azione necessita di essere guidata esclusivamente dall’intenzione di agire moralmente, ovvero secondo il dovere espresso dalla Ragione, e da nessun’altra finalità: non può dirsi morale un agire che sia tale perché intende soddisfare un’abitudine diffusa socialmente o una prescrizione, ma può esserlo solo se intende soddisfare il “dovere” e l’universalità della sua regola, del suo valore. 

 

Giovanni Fattori, "Uomo nel bosto" (1890)
Giovanni Fattori, "Uomo nel bosto" (1890)

 

A partire da quanto detto fino ad ora è importante approfondire un aspetto problematico del pensiero di Kant. Un limite infatti sta nell’aver separato il processo di riconoscimento del dovere da parte del soggetto, dal “desiderio” (il quale identifica appunto la soggettività in cui ogni pensiero individuale è collocato).  Kant afferma che l’agire pienamente morale è quello che si realizza quando, ipoteticamente, la volontà del soggetto coincide in toto con la Ragione. Il problema è che, mentre la volontà viene pensata come determinata da vari fattori (gli impulsi, i sentimenti, ecc.), la Ragione viene pensata da Kant come incondizionata, quindi incondizionata anche dal desiderio. Per agire moralmente dunque il desiderio non ha per Kant alcuna rilevanza (o più precisamente, ce l’ha solo se inteso come desiderio di adempiere al dovere). Infatti, come si è detto precedentemente, è il dovere a far sì che un certo agire possa essere considerato morale, ed è la Ragione ad essere posta come fondamento della scelta, la quale per essere morale, deve rispettare il dovere riconosciuto. Ma, pensare ad una Ragione che sia incondizionata dal desiderio è impossibile, giacché, ognuna delle scelte di un individuo, anche di quelle che sono espressione di una massima universale, dunque di un dovere, riflettono la maggiore desiderabilità di un’azione rispetto ad un’altra. Il fatto che nella scelta su come agire, l’individuo debba pensare di agire "soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, può volere che divenga una legge universale", non impedisce il riconoscimento di una preferenza, di un’idea su come debba esplicitarsi la legge universale in quella particolare situazione; questi elementi sono l’espressione del desiderio che in quel momento il soggetto decide di realizzare. Questo accade perché la massima, volendosi appunto “incondizionata”, non indica al soggetto quale sia il bene verso cui orientare la scelta. Per agire nel modo in cui “tutti dovrebbero agire”, è necessario avere un’idea su quale sia il bene che si intende realizzare. Per sapere quale sia quel bene è necessario riconoscere qualcosa di preferibile rispetto a qualcos’altro, e quindi, volere che quel che è preferibile si realizzi. Ecco allora che il desiderare qualcosa, piuttosto che altro, è un passaggio fondamentale nella valutazione di quale sia l’agire morale. Il desiderio, così come lo stesso Kant l’ha elaborato, non è un artifizio esterno alla morale, bensì è un elemento fondamentale per guidare le scelte da compiere e la Ragione stessa. Nessuno può prescindere, nella scelta su come comportarsi, dal desiderio che sta soddisfacendo; in quanto, quella scelta, sia che essa insegua un piacere materiale (ad esempio la degustazione di un cibo), sia che essa tenti di soddisfare un piacere empatico (ad esempio l’interruzione della sofferenza che un altro individuo in quel momento sta provando), è la concretizzazione del tentativo di provare un piacere, e dunque di realizzare un desiderio appunto. Ogni azione compiuta è la realizzazione del desiderio, che più di ogni altro, si è ritenuto, in quel momento, preferibile. Ciò non significa che ogni azione che sembra realizzi un desiderio, debba essere ciecamente compiuta, ma che ogni scelta è morale, nella misura in cui ha riconosciuto e realizzato l’universalità del desiderio soddisfatto, e quindi di un desiderio "educato".

 

27 settembre 2019

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica