Sul sentiero aristotelico della bellezza

 

Per evitare che ogni nostro giudizio si appiattisca ad essere una mera constatazione dei piaceri del momento, Aristotele ci indica la direzione verso cui orientare lo sguardo. 

 

di Simone Basso

 

 

Nell’articolo Il valore della causa finale si è trattato dell’importanza che assume la concezione aristotelica in ogni percorso di ricerca filosofica. È stata posta l’attenzione su come, secondo Aristotele, non è solamente la “causa efficiente” (ovvero la causa diretta di un certo movimento) a determinare il passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, ma anche, egli sostiene, la cosiddetta “causa finale”. Essa, per il filosofo greco, coincide con Dio, e rappresenta lo scopo del divenire di ogni ente; essa è il motore immobile, “ciò verso cui tutto tende”, ovvero il fine ultimo a cui ogni ente si rivolge nel corso del divenire. La concezione che vede la causa finale capace di influire nella direzionalità assunta dal divenire diviene punto di riferimento nella vita dell’uomo, permettendo di concepire l’esistenza stessa come un qualcosa di via via perfettibile, aprendo così alla possibilità di un giudizio qualitativo. Vediamo come il pensiero del filosofo greco si presenta ancora attuale e capace di indirizzare la nostra riflessione. 

 

Cosa riteniamo essere bello? Questa domanda pone innanzitutto la questione su quali siano i criteri da usare nell’elaborazione di un giudizio. Dalle valutazioni estetiche ai giudizi di valore (riguardanti ad esempio determinate azioni) il dibattito si caratterizza specificatamente a seconda dell’oggetto di cui si tratta: valutare un dipinto richiede considerazioni differenti da quelle utilizzate per la valutazione di un romanzo, o ancora, dal giudizio dato nei confronti di certi comportamenti.

 

Al giorno d’oggi però accade che, mossa dalla formula «non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace» si diffonda la credenza che un giudizio sulla bellezza possa essere esonerato dal rispondere ad altro criterio di valutazione che non sia il sentire immediato di “bello” o “brutto”. È infatti frequente la tendenza ad addurre come “criterio” della propria valutazione la prima impressione, la subitanea sensazione provata, e dichiarare contemporaneamente incontestabile tale argomento. 

 

Giovanni Motta, "Wonder" (2020)
Giovanni Motta, "Wonder" (2020)

 

La sensazione soggettiva che si prova di fronte ad un certo oggetto o ad una certa esperienza, che sia piacevole o spiacevole, è innegabile; essa però si distingue dal giudizio che diamo a posteriori proprio in quanto quella prima sensazione viene messa a confronto con gli eventi e i pensieri precedenti e successivi della nostra vita e quindi valutata più criticamente.

 

Per questa ragione infatti non ci si sogna nemmeno di giudicare positivamente o negativamente l’assunzione di una sostanza stupefacente, a seconda della sensazione immediata che se ne ha, bensì la si valuta osservandone l’insieme delle conseguenze che ne derivano.

 

 

Evitare di considerare come criterio unicamente la prima impressione, non vuol dire non lasciare alcun margine al gusto personale nell’affermazione di un certo giudizio, ma significa non sottrarsi alla messa in discussione di quella valutazione. Adoperare come parametro di tale valutazione null’altro che l’emozione suscitataci al primo impatto significa rifiutare ogni possibile analisi critica; e ciò implica una totale chiusura al confronto: non nel senso di non essere disposti a scambiarsi opinioni con altri a proposito delle prime impressioni che l’oggetto trattato ha suscitato; bensì nel senso che quelle opinioni – in tale cornice – saranno legittimate a rimanere nulla più che un’altra visione, un altro parere, di cui si potrà decidere, nonostante tutto, di non tenere conto. Ecco che la pretesa relatività del giudizio riguardante la bellezza si trasforma nel più categorico rifiuto di porre realmente in discussione qualunque valutazione. 

 

Ed è esattamente quel che succede: la bellezza viene ridotta a mera sensazione momentanea soggettiva. Quando poi questo pensiero si diffonde socialmente e viene interiorizzato dai più, si aggiunge un ulteriore elemento di distorsione nella valutazione. La bellezza viene fatta coincidere con la popolarità. In assenza di una ricerca tesa all’universalità e all’autenticità del giudizio, l’unico parametro che rimane per poter costruire un accordo su ciò che dev’essere considerato bello o meno, è il favore che quegli stessi giudizi riscontrano nella maggioranza. In altre parole il metro di giudizio diviene il successo riscontrato e la bellezza perde di ogni autenticità e di ogni orientamento critico

 

Il cosiddetto “intrattenimento” è forse la categoria rispetto alla quale più frequentemente una tale concezione distorta di bellezza funge da giustificazione al rifiuto di sottoporre ad analisi critica la propria valutazione. Ciò che nasce unicamente per intrattenere non dev’essere bello (nel senso di ricercare una bellezza autentica attraverso giudizi critici), ma si ritiene bello unicamente se provoca un piacere immediato, senza la necessità di mostrare alcun altro fine, aspirazione o valore. Avviene così l’inversione: la bellezza non è più il “fine” cui si tende, ma già è, inoppugnabilmente, ciò che si dichiara tale. 

 

Lungi dal voler somministrare una ricetta di vita deprivata da ogni forma di piacere leggero, ciò non toglie che per quanta “leggerezza” si possa essere intenzionati a gustarsi, anch’essa necessita di rispondere a criteri valoriali e di bellezza, e che rifiutarsi di compiere tale valutazione in nome di un puro e incontaminato “intrattenimento” rischia di trasformare un legittimo svago in una scriteriata oscenità.

 

 

Si è richiamato inizialmente alla causa finale aristotelica proprio perché rappresenta un ottimo spunto di riflessione capace di mettere in luce la problematicità di una inversione della relazione tra bellezza e giudizio motivato unicamente dal prima impressione. Lo stesso Aristotele infatti nel Libro XII della Metafisica affronta la questione. Egli, discutendo del movimento provocato da una causa finale che muove senza essere mossa, afferma: 

 

« Un movimento di tal genere è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è oggetto di pensiero. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata, sono tra loro identici. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello nel suo manifestarsi, mentre è oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità; ed è più esatto ritenere che noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per il solo fatto che noi la desideriamo: principio è, infatti, il pensiero. »

 

Nella citazione l’oggetto del desiderio è l’oggetto che appare come preferibile in un certo momento; mentre l’oggetto del pensiero possiamo intenderlo come l’oggetto sottoposto ad una valutazione critica da parte del pensiero appunto. La considerazione per la quale «noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella» e non «per il solo fatto che noi la desideriamo» intende proprio affermare il valore di una bellezza che non si riduca al desiderio provvisorio, ma che possa, in virtù della forza del pensiero, avvicinarsi alla bellezza autentica. Qui, il riferimento alla causa finale è fondamentale in quanto rappresenta l’aspirazione massima della volontà, la ricerca del «bello nella sua autenticità». Senza la “causa finale” infatti non potrebbe darsi alcuna autenticità che non sia la preferenza del momento – l’effimero oggetto del desiderio – qualunque essa sia. In altre parole senza causa finale prevarrebbe l’intrattenimento fine a se stesso, il bello come mera affermazione della propria pulsione più immediata. 

 

Già più di 2000 anni fa, Aristotele vide lungo. ll riferimento ad una causa finale, necessaria e universale, impone ad ogni valutazione una riflessione sulla gerarchia di valori impliciti ad ogni genere di giudizio; mettendo in luce e problematizzando la questione che, al contrario, ogni affermazione relativistica preferisce sottacere.  

 

12 ottobre 2020

 








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