Il valore della causa finale

 

Una riflessione sul contributo della causa finale proposta da Aristotele. 

 

di Simone Basso

 

Gustave Courbet, "L'immensità" (1869)
Gustave Courbet, "L'immensità" (1869)

 

Dietro al termine Dio si celano molti significati non riducibili al diffuso pensiero superficiale che lo intende come una sorta di entità soprannaturale che “tutto può”, a metà strada tra un “narratore onnisciente” e un intransigente grande occhio orwelliano. Accade spesso infatti che si concepisca Dio semplicisticamente, come un’entità che rivolge, da un qualche luogo immaginifico non ben precisato, il suo sguardo antropomorfizzato sull’uomo: sorvegliando, osservando e “giudicando”. Molti discorsi che riguardano la religiosità in generale, nell’odierna epoca postmoderna e post-nietzscheana, sono impoveriti e dimentichi dei secoli di storia del confronto filosofico e teologico attorno a tale argomento. Risulta quindi interessante soffermarsi su alcuni aspetti che rischiano di andare persi quando si liquida con eccessiva superficialità ogni discorso “religioso”, tacciandolo di superstizione, nel nome di un ben poco chiaro “pragmatismo” o “realismo”.

 

La filosofia greca con la sua riflessione ha portato alla luce la cosiddetta «filosofia prima (o metafisica), come scienza dell’ente in quanto ente (cioè come “ontologia”) e dell’ente supremo e immutabile (“teologia”).» (Emanuele Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo). Al giorno d’oggi invece si assiste ad un disinteressamento nei confronti di una ricerca che abbia tali pretese. Per questo motivo può essere utile riprendere le questioni che inizialmente l’hanno mossa. Uno dei contributi più importanti proviene sicuramente da Aristotele, per di più in vista dell’influenza esercitata in quello che sarà il successivo sviluppo del cristianesimo. Un aspetto fondamentale che qui ci interessa approfondire è che Dio per Aristotele non è un’entità creatrice, bensì la “causa finale”. Per comprendere questo punto è necessario richiamare, per sommi capi, alle 4 celebri cause individuate da Aristotele: formale, materiale, efficiente, finale.

 

Già secondo Aristotele e diversi altri filosofi antichi: “dal nulla non si genera nulla”, in quanto altrimenti si dovrebbe ritenere conseguentemente che dalla “privazione” – ovvero da ciò che non-è – potrebbe avere origine qualcosa-che-è, e ciò condurrebbe alla contraddizione per cui: il non-essere è qualcosa (o più precisamente: è qualcosa che genera). Per questo motivo lo stagirita ritiene innanzitutto che esistano la causa materiale e la causa formale; ovvero le due “cause” che permettono alle cose di passare dalla potenza all’atto. Esse permettono di aggirare la contraddizione appena vista, e di sostenere che: non è dal nulla che qualcosa diviene qualcos’altro, bensì è da un essere-in-potenza che qualcosa può successivamente essere-in-atto. 

 

« poiché il termine “essere” ha una duplice accezione, ogni cosa cangia dall’essere in potenza all’essere in atto (così, ad esempio, si passa dal bianco in potenza al bianco in atto, e lo stesso dicasi anche per l’accrescimento e la diminuzione), sicché non solo è ammissibile che la generazione proceda accidentalmente dal non-essere, ma è anche vero che tutte le cose sono generate dall’essere, purché, però, si intenda un essere-in-potenza e un non-essere in-atto. » (Aristotele, Metafisica)

 

Perché avvenga questo passaggio – dall’essere in potenza all’essere in atto – deve esserci qualcosa che consente tale movimento. A svolgere questa funzione, per Aristotele, è la “causa efficiente” ovvero “il movente”. Ogni ente del mondo sensibile che cangia, secondo Aristotele, è mosso da altro; allo stesso tempo però nella ricerca di quale sia la causa di un certo movimento – ovvero del passaggio dalla potenza all’atto – non si può retrocedere all’infinito – ricercando di volta in volta il “movente” precedente – e pertanto è necessario che esista un “movente immobile”, ovvero un motore che muova senza essere mosso da altro.

 

« dobbiamo notare che né la materia né la forma, nel senso di materia e di forma prossime, sono generate. Infatti, ogni cosa che cangia, cangia in virtù di qualcosa e in qualcosa: ciò in virtù di cui si attua il cangiamento è il motore prossimo; ciò che cangia è la materia; ciò in cui essa cangia è la forma. Ma si procederebbe, intanto, all’infinito, se si generassero non solo la sfera di bronzo, ma anche la rotondità e il bronzo: è necessario, quindi, che il processo abbia un punto di arrivo. » (ivi)

 

Vincent Van Gogh, "Il vento" (1890)
Vincent Van Gogh, "Il vento" (1890)

 

Ecco che, nell’ultima affermazione, Aristotele richiama il principio secondo cui non si può ricercare la causa di un “movimento” – o passaggio dalla potenza all’atto – ogni volta in un ente in movimento ad esso precedente, che porterebbe a retrocedere all’infinito nella ricerca. È dunque necessario che esista un “movente immobile”. Il “punto d’arrivo” quindi è per Aristotele il “motore immobile”. Tale “Motore immobile” deve necessariamente essere sia causa motrice in-atto, sia sostanza in-atto, in quanto se fosse in-potenza potrebbe “divenire atto” e quindi cadere in contraddizione nuovamente, non essendo Immobile.

 

« Ma sebbene esista una causa motrice e produttrice, se essa non è in-atto, non ci sarà movimento, giacché ciò che ha la potenza di passare all’atto può anche non passare all’atto. […] Ma c’è di più: pur ammettendo che la causa sia in-atto, parimenti non ci sarà movimento, qualora la sostanza di questa causa sia una potenza: difatti, in tal caso, sarebbe impossibile l’eternità del moto, perché ciò che è in-potenza può anche non essere. Ecco perché è indispensabile che ci sia un principio tale che la sua stessa sostanza sia atto. […] Come infatti vi potrebbe essere movimento senza l’esistenza di una qualche causa in-atto? […] Nessuna cosa, infatti, è mossa fortuitamente, ma è indispensabile, in ogni caso, la presenza di una causa determinata; […] ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c’è, tuttavia [pertanto], un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto. » (ivi)

 

Si evince dunque che tale “motore immobile” sia un'unione di sostanza e atto; ovvero un ente la cui sostanza è atto puro. Questo atto puro è, secondo Aristotele, la causa finale, cioè Dio; il quale – per ragioni che qui non approfondiremo – non potrà che essere impegnato nell’attività di pensare unicamente ciò che è eternamente in atto, ovvero se stesso.

 

Con l’aiuto di Severino è possibile comprendere meglio quali siano le conseguenze di tale riflessione.

 

« […] nella realtà sensibile ogni agire […] è anche un patire, cioè ogni muovere è insieme un essere mosso, ogni muovere è un “com-muoversi”. Il Movente Immobile, proprio perché immobile, non può com-muoversi, cioè non può muovere nel senso in cui la causa efficiente muove. Ma ciò che muove senza muoversi può essere solo l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza. Il Movente Immobile non è causa efficiente, ma causa finale dell’universo. Esso è lo scopo dell’universo, ma non lo scopo considerato come il contenuto che viene prodotto dall’agire, bensì lo scopo considerato come ciò a cui l’azione mira e che guida l’azione. Il Dio muove il mondo, così come l’oggetto dell’amore, impassibile, muove l’amante. Il Dio non produce il mondo, ma impassibile, senza commuoversi lo attrae a sé come la terraferma attrae a sé chi va navigando sul mare. » (Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo)

 

Questa concezione aristotelica di Dio rappresenta un’importate conquista nella ricerca metafisica da parte dell’uomo; esso infatti viene posto come punto di riferimento verso cui tende ogni “cosa”. La ricerca filosofica riconosce in questa concezione di Dio il proprio “scopo”, trovando nella causa finale la ragione del proprio essere e il “motore” del suo continuo interrogarsi. È anche grazie a questa conquista che la filosofia e la metafisica si apriranno a futuri importanti sviluppi; i quali saranno espressione della continua “tensione verso...” cui è soggetta la stessa condizione umana

 

Tale tensione è espressa nella metafora dell’amante e dell’amato, che Aristotele utilizza per spiegare come la causa finale agisca e si differenzi dalla causa efficiente.

 

« Ed essa [la causa finale] produce il movimento come fa un oggetto amato, mentre le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse. » (Aristotele, Metafisica)

 

La causa finale intesa aristotelicamente ribalta la concezione di Dio più diffusa oggigiorno. Spesso si tenta di definire “Dio” affermando che esso è “amore”, oppure che esso coincide con il bene. Per Aristotele invece «Tutto l’universo è amore per Dio; non è Dio a essere amore per l’universo.» (ivi)

 

Questo pensiero inverte la tendenza usuale, ad utilizzare un termine del quale si conosce – in maniera più o meno appropriata – il significato, per definire il termine “Dio”. Così facendo però si riduce il significato e il valore del termine “Dio” al significato della parola usata per definirlo, che può essere “amore” oppure “bene”, ecc. Ciò che invece nella concezione aristotelica di “Dio” è contenuto – “in più” rispetto ai significati delle parole singole utilizzate per definirlo – è proprio il riferimento alla causa finale a cui ogni ente si rivolge, in altre parole al vero fine a cui tutto tende. Possiamo tentare di comprendere cosa sia il bene, cosa sia l’amore, ma Dio non può essere ridotto a ciò che noi intendiamo con quei termini in quanto Egli è il fine ultimo, grazie al quale procede la stessa ricerca del significato di queste parole. Il significato che noi diamo a tali parole, assume un senso in virtù del fine, ancora ignoto, a cui aspiriamo nella nostra ricerca, ovvero in virtù di Dio. 

 

Pellizza da Volpedo, "Il sole" (1904)
Pellizza da Volpedo, "Il sole" (1904)

 

Per Aristotele Dio non può essere un ente che, tra gli altri, “vuole” che qualcosa altro da sé, sia. Dio è il fine ultimo, il punto di riferimento, che permette che ciò che via via scopriamo possa essere ritenuto bene o male, giusto o ingiusto; appunto perché è Esso la causa finale, il fine irraggiungibile e irrinunciabile, verso il quale la ricerca di cosa sia effettivamente bene acquista un senso. Senza un tale orizzonte, che può essere detto divino, sacro, finale, ma in ogni caso, universale, non sarebbe concepibile una ricerca – per l’uomo sempre perfettibile – verso cui muovere.

 

La visione cristiana pur attingendo a piene mani dalla tradizione aristotelica se ne differenzierà. Al Dio cristiano infatti viene attribuita una certa “volontà”, il che implica una non coincidenza tra Dio e l’atto puro teorizzato dal filosofo greco. È rimasto però fino ai giorni nostri il lascito aristotelico che attribuisce a Dio il valore di Verità ultima e definitiva. Egli pertanto appare come oggetto del Mistero, connotandosi per un’intrinseca impossibilità di essere definito compiutamente da parte dell’uomo, e fungendo, allo stesso tempo, da garante di ogni conquista nella sua ricerca. Come infatti afferma Nicolás Gómez Dávila non è vero che «Dio vuole il bene perché è bene», bensì «il bene è bene perché Dio lo vuole».

 

È senz’altro auspicabile non fermarsi a questa parziale riflessione riguardo al tema proposto, rispetto al quale sono molte le questioni che si potrebbero sollevare e approfondire. Ciononostante risulta evidente che in molte delle riflessioni contemporanee, tali conquiste dell’antichità sembrano essere ignorate e con esse, percorsi di ricerca decisivi per la crescita e l’esistenza di ognuno.

 

7 settembre 2020

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica