In cosa consiste la felicità?

 

Siamo abituati a collegare la nostra gioia alla buona riuscita dei nostri obiettivi; ma la prospettiva della conquista è quella migliore?

 

di Martina Cecchinato

 

 

Tra tutti i dubbi che abbiamo, tutti quelli che sorgono nei momenti più bui della nostra vita, tutti quelli che nascono spontaneamente in noi nel corso della crescita, tra tutti gli interrogativi che ci poniamo vivendo le più svariate esperienze possibili, il più complesso e personale forse è: “Ma sono davvero felice?” Oppure: “Ma sarò mai felice?”

 

Ecco, tutti noi identifichiamo la vera gioia come obiettivo massimo della nostra esistenza, come un punto lontano e quasi utopico.

In particolare, nelle situazioni difficili spesso il pessimismo prevale su di noi e finiamo per dimenticare tutti i momenti felici della nostra vita e oscurare ogni momento con un velo di tristezza. Arriviamo ad uno stato di poca lucidità, perché la nostra mente pone al primo posto sul podio soltanto le immagini e le idee tristi e fonti di preoccupazione.

 

L’istinto ci dice di andare oltre, superare gli ostacoli e lasciarci tutto alle spalle; dentro di noi sappiamo di essere forti e quest’idea ci stimola a reagire, ma spesso, purtroppo, questo pensiero resta un pensiero a sé, che non agisce concretamente. Se si potesse star bene soltanto con le parole che “diciamo” a noi stessi, allora abbattere i problemi sarebbe un gioco da ragazzi. Ma quante volte ci incoraggiamo da soli ad andare avanti, ad alzarci e reagire, senza effettivamente fare alcuna azione?

 

Questo è uno dei tanti meccanismi di difesa per evitare di affrontare realmente ciò che ci blocca: ovviamente fa bene cercare di aumentare la propria autostima, incoraggiarsi da soli a fare meglio; tuttavia non fa altrettanto bene illudersi col pensiero di star affrontando la situazione.

È palese che in questo modo si cerca di eliminare i pensieri negativi, i quali non farebbero altro che bloccarci ulteriormente, ma in verità li stiamo soltanto nascondendo.

Il processo della negazione, che è anche la prima delle cinque famose fasi del dolore, è probabilmente il più pericoloso, quello più difficile da superare, perché creare una propria illusione di benessere ci dona quella che noi chiamiamo “felicità” o “serenità” ed è ciò che ci attrae maggiormente in quanto esseri umani.

 

Da sempre l’uomo aspira alla gioia e talvolta può sembrare una ricerca inutile, un continuo agitare le proprie vite per poi scoprire di non essere ancora arrivati all’obiettivo.

 

Spontanea sorge la domanda: “E se non conquisteremo mai il nostro oggetto di felicità, se non saremo mai felici?” In realtà la domanda migliore da porsi sarebbe: “Conquistare quell'oggetto è davvero tutta la mia felicità?” Possiamo porre quante aspettative vogliamo e quanto alte le vogliamo, ma anche se non dovessimo raggiungerle, la nostra vita non sarà stata vana. O viceversa, anche se dovessimo raggiungerle, noi non saremo felici grazie a quella conquista.

 

 

Noi essere umani siamo spinti da una forza che ci costringe a volere sempre di più, un motore che non si ferma mai: la sete di successo personale.

Per questo motivo ogni conquista si rivela piacevole nel momento stesso e quasi insignificante subito dopo: per quanto quel raggiungimento possa averci reso entusiasti e possa esserci stato utile ad un progresso personale, la nostra attenzione si sposta immediatamente su un altro obiettivo, ad un gradino più alto.

 

« Si soffre molto per il poco che ci manca e gustiamo poco il molto che abbiamo. » (William Shakespeare, La tempesta)

 

Come suggerisce Shakespeare, non diamo la giusta importanza a ciò che abbiamo e diamo molto peso a ciò a cui aspiriamo. Ma soffrire per ciò che ci manca è ben diverso da focalizzarsi sul volerlo ottenere.

Trascurare ciò di cui siamo in possesso è un errore, per il semplice fatto che è la base da cui possiamo partire per arrivare al nostro prossimo obiettivo, ma accontentarsi troppo a lungo di ciò che si ha significa bloccarsi e privarsi di ciò che potremmo avere.

Oltretutto l’iniziale sofferenza per ciò che non abbiamo è quel che infine crea l’entusiasmo che ci spinge a cercare di ottenerlo.

Perciò è fondamentale gustare le proprie conquiste, assaporando contemporaneamente l’idea dei prossimi obiettivi.

 

Quindi quel che noi definiamo il “piacere della conquista” è in realtà una sensazione intensa ma contemporaneamente fragile e fugace, la quale può tramutarsi rapidamente in un senso di vuoto a causa di ciò che ci manca e/o in un grande entusiasmo per il prossimo passo.

La felicità istantanea delle nostre conquiste è illusoria: essere contenti di qualcosa che abbiamo può essere rischioso nel momento in cui ci fermiamo a possedere quella cosa e a credere di avere raggiunto la felicità per averla tra le nostre mani.

 

« La felicità è desiderare quello che si ha. » (Agostino d'Ippona, La felicità)

 

Accontentarsi di aver raggiunto qualcosa non ci renderà felici, perché bisogna vivere come se ogni cosa che possediamo potesse sparire da un momento all’altro. Desiderare ciò che si ha significa trascorrere la vita cercando di ottenerlo nonostante se ne sia già in possesso: vivere tenendo stretti a sé gli obiettivi raggiunti.

 

 

Da ciò consegue che la vera felicità non si trova nelle conquiste, ma nella ricerca costante di esse, nel vivere momento dopo momento facendo il possibile per ottenere ciò che desideriamo e poi continuare a desiderarlo per non rischiare di perderlo.

 

« L’attesa del piacere è essa stessa il piacere. » (Gotthold Ephraim Lessing, Minna von Barnhelm, atto IV, scena VI)

 

L’unica cosa che può donarci davvero felicità e a lungo termine è la consapevolezza di aver raggiunto i propri obiettivi tramite le nostre azioni e contemporaneamente la visione di un nuovo scopo, in cui identifichiamo un piacere più grande, e dalla cui ricerca ricaveremo gioia.

 

28 febbraio 2022

 









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