Il progresso scorsoio

 

Il nostro benessere è destinato ad essere un fuoco di paglia della storia, perché il baratro che si para di fronte a noi mette in mostra tutti i limiti di questo tipo di progresso “scorsoio” e delle fondamenta su cui si regge: nello stesso momento ci troviamo a dover affrontare guerre, recessione economica, pandemia, riscaldamento globale, inquinamento, siccità e carestia, perdita della biodiversità. Di fronte ai suddetti eventi il futuro si prospetta così cupo da farci persino rivalutare lo “splendente” passato da cui veniamo: a che prezzo tale progresso è stato ottenuto? A cosa ci ha portati?

 

di Alberto Giuseppe Pilotto

 

S. Kubrick, "2001: Odissea nello spazio"
S. Kubrick, "2001: Odissea nello spazio"

 

Italia. Estate 2022. Dopo mesi di assenza di piogge e nevicate invernali che hanno messo a dura prova i ghiacciai alpini, già in ritirata da anni, e dopo un maggio e un giugno segnati da un caldo inedito, il grande fiume Po è ridotto ad un rigagnolo. Nella Pianura Padana e in Friuli-Venezia Giulia si procede con il razionamento dell’acqua, la cui scarsità non mette a dura prova solo l’agricoltura ma anche l’industria e stesse attività di produzione dell’energia. La più grave siccità degli ultimi 70 anni.

Questo è solo l’effetto “locale” della crisi climatica mondiale che ci sta colpendo. Climatologi, meteorologi e scienziati in generale, insieme agli attivisti, ci avvertono ormai da anni del suo arrivo, ma sono sempre passati sotto silenzio, non sono stati creduti e sono stati addirittura messi a tacere. Ora, però, gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche dei negazionisti più scettici e increduli. Una “tempesta perfetta” che si sta per abbattere sul nostro pianeta e sulle nostre vite. 

È questo il frutto di quello che il poeta veneto Andrea Zanzotto chiamava “progresso scorsoio” e che dà il titolo al suo libro-intervista del 2009, concentrandosi su uno dei temi fondamentali della sua opera: la denuncia dello scempio ambientale delle sue terre e delle inevitabili ricadute socio-antropologiche di tale distruzione. L’industrializzazione, lo sfruttamento della terra, la conversione degli agricoltori e artigiani in piccoli imprenditori e poi grandi impresari, hanno ricoperto il paesaggio di profonde cicatrici, intaccandone la bellezza e l’equilibrio:

 

« L'aspetto più urtante, almeno visualmente, di come è cambiato il Veneto è l'aggressione al paesaggio. Alla scomparsa del mondo agricolo ha corrisposto una proliferazione edilizia inconsulta e casuale, con un'erosione anche fisica del territorio attraverso forme di degradazione macroscopica dell'ambiente.  Ora, tutta questa bruttezza che sembra quasi calata dall'esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato, "sottile" sia nella parte più selvatica come le Dolomiti, sia in quella più pettinata dall'agricoltura, non può non creare devastazioni nell'ambito sociologico e psicologico.  Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha sempre caratterizzato la tradizione veneta, alimentando impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio mentale. Per esempio, aggressività, umori rancorosi, intolleranze e spietatezze mai viste, secondo la logica di sbrogliare la crisi sociale etnicizzandola. E così è successo perché, in realtà, quell'orrenda proliferazione edilizia è scaturita appunto dall'affievolirsi di antiche virtù. » (A. Zanzotto, M. Breda, In questo progresso scorsoio)

 

Di fronte alla proliferazione edilizia, allo smodato consumo di suolo, allo scempio ambientale e paesaggistico di un territorio, il rischio che il poeta paventa è quello dell’abbruttimento di coloro che vi abitano, rendendoli incapaci di un rapporto autentico con la natura. Forse, di fronte ad un bel paesaggio, sarebbe più difficile volerlo deturpare erigendo fabbriche, capannoni, autostrade ed ecomostri in generale. Ma evidentemente la sete di progresso, mossa dal suo motore principale che oggigiorno è la sete di denaro, è riuscita a metterci una benda intorno agli occhi per impedirci vedere gli effetti delle nostre azioni. L'equazione è semplice: più si progredisce, più si riescono a proporre nuovi artefatti che migliorino la vita delle persone (anche surrettiziamente), più si guadagna dalla vendita di questi nuovi prodotti, guadagni da reinvestire a loro volta nella produzione che genera ulteriori guadagni. Questo ragionamento si inceppa nel momento in cui si crede che la suddetta crescita possa essere illimitata: la produzione, infatti, è sempre condizionata dalla disponibilità delle risorse che noi possiamo estrarre dal pianeta. Ma le risorse che il pianeta ha da offrirci sono limitate, e ciò che noi facciamo tornare al pianeta come frutto della produzione e del consumo sono troppo spesso agenti inquinanti, sia nella forma di gas serra che nella forma di plastiche e altri materiali dannosi. Lo scambio di questa equazione è chiaramente uno scambio ineguale, squilibrato: sembra quasi che similmente alla scommessa di Pascal noi volessimo ottenere l'infinito dal finito.

 

Cominciando con la rivoluzione scientifica in età moderna, continuando per la rivoluzione industriale, fino alla definitiva investitura dell’ideologia del progresso da parte dei positivisti ottocenteschi, i modi di produzione capitalistici hanno inglobato in sé i risultati della modernità, facendo del desiderio di guadagno, di accumulazione, di benessere e di ascesa sociale il motore del progresso stesso. Certamente i benefici non hanno tardato a farsi attendere, e l’enorme progresso nelle conoscenze tecno-scientifiche ha permesso uno sviluppo del benessere umano impensabile fino a qualche secolo fa.

Tale ideologia del progresso, però, pare essere fondata su delle contraddizioni insanabili, di cui lo stesso Zanzotto è consapevole, contraddizioni che lo rendono una bomba pronta a esplodere: il paradigma dell’economia estrattiva, della crescita economica infinta ottenuta ad ogni costo, del PIL come unica unità di misura della prosperità e del benessere:

A. Zanzotto (1921-2011)
A. Zanzotto (1921-2011)

« Oggi siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: che deve crescere sempre, non si sa perché. Procedendo così, la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole, che ho sintetizzato in un aforisma di tre versi:

"In questo progresso scorsoio

non so se vengo ingoiato

o se ingoio". » (Ivi)

 

Da decenni viviamo al di sopra delle nostre possibilità, delle possibilità che il pianeta ha da offrirci. E pensare che chi vive secondo i nostri standard occidentali è solo una parte minoritaria rispetto alla popolazione globale. Utopico pensare di offrire a tutta l’umanità il nostro stesso livello di benessere. E allora il nostro benessere è destinato ad essere un fuoco di paglia della storia, sia perché non può essere condiviso nonostante sempre più persone lo desiderino, sia perché il baratro che si para di fronte a noi mette in mostra tutti i limiti di questo tipo di progresso “scorsoio” e delle fondamenta su cui si regge: nello stesso momento ci troviamo a dover affrontare guerre, recessione economica, pandemia, depressione, riscaldamento globale, inquinamento, siccità e carestia, perdita della biodiversità. Di fronte ai suddetti eventi il futuro si prospetta così cupo da farci persino rivalutare lo “splendente” passato da cui veniamo: a che prezzo tale progresso è stato ottenuto? A cosa ci ha portati la sete di guadagno?

 

Ulteriore motivo di preoccupazione, che ci mostra ulteriori limiti di questa concezione di progresso e benessere è l'aumento a livello mondiale di fenomeni depressivi: la depressione, come avverte l'OMS, diventerà la malattia più diffusa al mondo. Sembra, insomma, che questo modello non sia capace di garantire il benessere globale né a livello materiale (centinaia di milioni di persone vivono ancora in uno stato di povertà estrema), né a livello ambientale, né, infine, a livello mentale e psichico.

 

Siamo stati troppo miopi, non siamo stati all’altezza delle nostre conoscenze, forse perché accecati dallo stesso motore del progresso, dagli investimenti, dal guadagno che sì, promuove l’innovazione, ma che ora ci impedisce di fermarci perché è stato anteposto a tutto il resto.

Il progresso che non guarda in faccia nessuno, troppo preso da se stesso, dal suo autocompiacimento, lanciato verso il suo proprio potenziamento illimitato calcolato secondo mito del PIL (un meccanismo che ricorda la “tecnica” di Heidegger, con il quale Zanzotto condivideva la passione per Hölderlin). Ebbene, tale “progresso” è destinato ad una iperbole: dopo una crescita vertiginosa, una progressione geometrica o esponenziale, arriverà un inevitabile declino e uno schianto finale. 

 

A che valgono allora tutti i proclami intorno ai successi del progresso, della tecnica e del capitalismo? Ciò che ha portato l’umanità (o almeno parte di essa) a questa condizione di “prosperità” ha assunto l’aspetto di un nodo scorsoio attorno al suo collo, un nodo scorsoio che prima ne provoca l’abbruttimento culturale, morale e spirituale. Infine, quando sarà ormai sul patibolo, incapace di trovare un’alternativa, una via di fuga, aprirà definitivamente la botola della crisi generale globale. Un progresso mosso dall’avidità e della sete di guadagno, dalla ricerca di un benessere temporaneo, fugace, e che ci ha resi ciechi rispetto alle sue conseguenze, rischiando di far finire l’umanità in una situazione peggiore di quella precedente.

Un progresso di questo tipo, sapeva bene Zanzotto, è insostenibile sul lungo periodo. Il “banchetto” allestito nell’ultimo secolo in una parte del mondo durerà ancora poco prima che la natura presenti il conto. Tale banchetto, ricordiamo agli epigoni del progresso e della crescita infinita su cui si regge, al quale gran parte dell’umanità non è stata invitata, ed è costretta ancora a vivere in condizioni di indigenza e malattia, povertà estrema, mancanza dei beni essenziali. Un “progresso scorsoio” che si rivela anche ampiamente diseguale, richiedendo il sistematico sfruttamento di persone cui però non è permesso parteciparvi, dovendosi al massimo accontentare degli scarti.

 

Alla luce di questo, la speranza che la tecno-scienza ci possa salvare, dopo averci portati sull’orlo della disfatta, appare solo come una semplice fede, e non come una certezza, soprattutto se le decisioni politiche ed economiche globali continuano ad essere prese seguendo sempre e comunque gli obiettivi della crescita continua e dell’aumento del PIL. Sembra chiaro che se la svolta green non è profittevole per i capitalisti, semplicemente non può avvenire. Come se non bastasse, ci deve essere la chiara consapevolezza di trovarci tutti sulla barca del sistema capitalista, una barca che si alimenta della crescita continua e non può fare a meno, pena il suo stesso crollo. Siamo lanciati in una corsa senza la possibilità di fermarci, perché fermando questa corsa cadrebbe l’intero sistema che permette di sostentarci: ci fermeremo solo con il naufragio finale, quando esauriremo le risorse.

Ma dall'altra parte, continuare in questo vicolo cieco del consumismo può essere solo il progetto di un folle, come affermava ironicamente Kenneth Edward Boulding: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo o un economista» (citato da M. Gentile, Senza identità: Riflessioni e ispirazioni contro l’individualismo).

 

Se ogni civiltà nasce e si sviluppa anche in una relazione necessaria con un determinato ecosistema, il progresso scorsoio ha già provveduto a mettere il cappio intorno al collo dell’umanità dal momento in cui la distruzione dell’ecosistema ha posto le premesse per la distruzione della civiltà che in esso vive. L’abbruttimento dell’umanità è già avvenuto: ne è sintomo la spirale discendente che si muove tra individualismo, post-verità, attenzione solo per i propri interessi particolari, ipostatizzazione del denaro e del consumo, incapacità politica di trovare soluzioni, disinteresse generale verso le soluzioni se queste non possono essere economicamente vantaggiose. Insieme con l’abbruttimento culturale e politico, in atto già da tempo, è arrivata la crisi climatica, con i risvolti che vediamo tutti i giorni in Italia e nel mondo. Una società in piena decadenza, che deve però compiere una presa di coscienza radicale e mettere in atto misure estreme per impedire che questa nostra economia e questo nostro tipo di progresso ci conducano alla disfatta definitiva. 

 

Insomma, si dice di sovente che “oggi si sta meglio di ieri”. Questo mantra, ripetuto costantemente ma per nulla autoevidente, serve a giustificare in maniera pretestuosa un modello di progresso che sul lungo termine sappiamo essere insostenibile: se tale modello non viene ripensato e modificato immediatamente, tradirà le sue promesse sulle “magnifiche sorti e progressive”, e farà piombare l’umanità nella più grave catastrofe della sua storia. Siamo ancora in tempo per elevarci all’altezza intellettuale e culturale che questo compito richiede, recuperando quel senso del limite che abbiamo perduto quando abbiamo cominciato a pensare di essere i padroni della natura. Possiamo ancora virare verso un altro modello, magari più lento, ma consapevole, ponderato, rispettoso e veramente utile.

Ora, però, la sentenza è già pronunciata e la condanna sta per essere eseguita. Ora è il momento di limitare i danni, è il momento dell’armistizio con una potenza che ci è impossibile sconfiggere ma che può ancora scendere a un compromesso. Con Bacone, abbiamo pensato all’inizio dell’età moderna che conoscendo le leggi della natura avremmo potuto piegarle al nostro volere: è il momento di riconoscere che esse possono essere piegate fino ad un certo punto, ma mai infrante. È il momento di riconoscere la contraddizione sorta tra progresso e crescita, che lo fa diventare un “progresso scorsoio”. A forza di tirare, il cappio si chiuderà del tutto, lasciandoci appesi e sconfitti, soffocati sotto il nostro stesso peso.

 

27 giugno 2022

 








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