Smascherare falsi idoli. Nietzsche su sostanza e verità

 

Nel nostro breve cammino ci imbatteremo in uno tra i filosofi più discussi e amati del diciannovesimo secolo: Friedrich Nietzsche. Vedremo come il “filosofo col martello” abbia cercato di distruggere la corazza illusoria della cosa-in-sé e della verità per riportare a nudo la vera essenza dell’uomo: l’io come energia, come volontà di potenza che tende al superamento di se stessa.

 

 

La menzogna della cosa-in-sé

 

Fare filosofia col martello: distruggere le false credenze che hanno accompagnato gli uomini nel “mondo apparente”, in attesa di entrare a far parte di quel “mondo vero”, inattingibile, indimostrabile e – dopo Kant – impromettibile, ma pur sempre consolante (cfr. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1983, pp. 46-47). È questo l’impulso che muove la penna di Nietzsche in tutte le sue opere. Due tra le maggiori finzioni che Nietzsche smaschera sono il concetto di cosa-in-sé e quello di verità. Il presupposto da cui partire consiste nel mancato riconoscimento da parte di Nietzsche di un nucleo fondamentale immobile, di un substrato egemonico caratterizzato e caratterizzante – a priori – che accompagnerebbe l’individuo nelle proprie esperienze a posteriori riorganizzate, analizzate e giudicate dallo stesso. La sostanza, per il filosofo tedesco, è una menzogna:

 

« La ‘cosa in sé’ è un controsenso. Se immagino di abolire tutte le relazioni, le proprietà, le attività di una cosa, la cosa non rimane; infatti, la cosalità è una nostra finzione, è aggiunta da noi per bisogni logici, allo scopo di definire, di intenderci » (Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 2001, p. 308).

 

È solo in vista di un intendersi comune e quindi per un tacito utilitarismo che l’uomo crea e usufruisce di definizioni riferentesi a fantomatiche cose: «una cosa sarebbe definita solamente quando tutti gli esseri avessero chiesto al suo proposito ‘cos’è questo?’ e avessero dato la loro risposta» (ivi, p. 307).

 

Echi di sentenze lontane, che ci riportano direttamente a quel Pascal che nei Pensieri si domanda espressamente “che cos’è l’io?”:

 

« Ma chi ama qualcuno per la sua bellezza, l’ama veramente? No, perché il vaiuolo che ucciderà la bellezza senza uccidere le persone, lo porterà a non amarla più. […] Dov’è dunque questo io, se non è né nel corpo né nell’anima? […] Si amerebbe forse la sostanza della persona astrattamente, quali che fossero le sue qualità? Ciò non è possibile e sarebbe ingiusto. Dunque non si ama mai una persona, ma soltanto certe qualità » (Blaise Pascal, Pensieri , Bompiani, Milano 2020, p. 169). 

 

Benché sembrerebbe chiaro qui che in Pascal permanga la presenza di un soggetto come substrato che acquisisce e perde qualità nel tempo, è evidente che il focus sia incentrato su queste ultime, e non sulla sostanziale presenza dell’io. L’io parrebbe privato del proprio valore insito nel fatto stesso di esserci in quanto questo-io-unico, un esserci che è dato al di là delle sue qualità contingenti e precarie, le quali non determinano, nella sua dimensione più intima, l’unicità e il valore della persona.

 

L’intelletto umano e il peccato primordiale

 

Ma torniamo a Nietzsche e vediamo insieme quanto scrive in merito alla questione del linguaggio, strettamente collegata alla de-sostanzializzazione dell’io. La possibilità di significare un qualcosa attraverso il linguaggio non è altro che la risultante di un processo umano attraverso il quale gli individui hanno convenzionalmente associato un suono ad un fatto a loro esterno:

 

« Viene quindi inventata una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità » (Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano, 2015, p. 15) 

 

Non vi è alcuna relazione essenziale tra il significante e il significato, infatti dalla logica decostruttiva secondo cui non esiste nulla che sia cosa-in-sé, non sfugge nemmeno la verità, così leggiamo: «il criterio della verità si trova nell’aumento della sensazione di potenza» (Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit., p. 296). 

 

Dire che la verità sia una menzogna appare a un primo sguardo un’affermazione contraddittoria, oscura. Per Nietzsche non è altro che lo svelamento dell’effetto più evidente della tracotante vanità umana. Tracotante e menzognero è proprio il «minuto» in cui l’esistenza umana appare sulla Terra. (cfr. Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna, op.cit., p. 11). 

 

Fonte del peccato primordiale è l’intelletto umano, troppo umano, il quale manifesta la propria potenza «come se i cardini del mondo ruotassero su di lui» (ibidem). L’intelletto è umano, e l’uomo che lo possiede e lo produce si sente al centro dell’universo, come se tutto girasse intorno a lui. Ma se potessimo intenderci con la zanzara, capiremmo che anch’essa ha lo stesso sentimento di centralità nel mondo (ivi, pp. 11-12). L’intelletto è fonte di vita perché è ciò che ci permette di resistere – anche se solo per un minuto – sulla Terra, ma allo stesso tempo è fonte inesorabile di menzogna, vanità, miseria: 

 

« L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione. Questa è infatti il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti [gli uomini] si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci » (ivi, pp. 12-13, nostre le quadre).

 

Per Nietzsche dunque la causa prima dell’errore storico che accompagnerà l’uomo in tutta la sua menzognera esistenza – l’invenzione del mondo vero – risiede nell’intelletto, tratto caratterizzante il debole animale umano. È grazie all’intelletto, e di conseguenza al linguaggio, che l’uomo può affidare la propria sopravvivenza all’arte della finzione, unica arma contro gli altri animali di costituzione forte e feroce. Nel fare ciò gli uomini non cercano di evitare l’essere ingannati, bensì evitano l’essere danneggiati dall’inganno.

 

« In tale senso limitato l’uomo vuole soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli - che preservano la vita - della verità, è indifferente verso la conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive » (ivi, p. 15).

 

Il linguaggio, in conclusione, è un insieme di relazioni tra le cose e l’uomo, relazioni – ci dice Nietzsche – che sono espresse attraverso metafore:

Prima metafora: uno stimolo nervoso è trasferito in un’immagine.

Seconda metafora: l’immagine è poi plasmata in un suono.

 

Ogni volta si ha un passaggio a una sfera completamente nuova. I concetti del linguaggio umano finiscono per non essere altro che «residui di una metafora» (ivi, p. 22). E tra questi residui di metafora di cui abbiamo dimenticato la natura metaforica, vi sono – come abbiamo cercato di mostrare – la cosa in sé e la verità. A questo punto ci chiediamo con Nietzsche: che cos’è dunque la verità?

 

« Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete » (ivi, p. 20).

 

Abbiamo visto come la cosalità e la verità siano categorie fittizie e ultimamente umane, come la scomparsa dell’uomo determinerebbe di conseguenza la scomparsa dal mondo di questi concetti menzogneri. A questo punto, cosa rimane? Cosa è l’individuo? In cosa consiste questo corpo – il mio corpo – che fa esperienze nel mondo, che soffre e gioisce, che desidera? Chi sono io?

 

 

Siamo energia che vuole superarsi

 

Una volta esplicitata la natura menzognera della cosa-in-sé e il conseguente inganno del linguaggio che ci fa credere, attraverso una duplice metafora, di essere in possesso di verità che ci permettano di definire – e quindi possedere – le cose, non resta almeno l’individuo come soggetto?

 

Allo stesso modo però, vediamo come Nietzsche ci interrompa bruscamente, per mostrarci che sia altrettanto menzognero ritenere l’individuo un soggetto:

 

« 'Soggetto' è fingere che molti nostri atti uguali siano l’effetto di un sostrato: ma noi abbiamo prima creato la ‘uguaglianza’ di questi stati: il dato di fatto è il rendere uguali e il sistemare questi stati, non la loro uguaglianza (anzi, l’uguaglianza va negata) » (Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit., aforisma 485 p. 273).

 

Il concetto di soggetto poggia sulla credenza di un sostrato unitario che esperisce atti uguali. Tolta di mezzo l’uguaglianza presunta di questi stati, in realtà concepita a posteriori, decade anche la sussistenza ontologica di ciò che è chiamato soggetto. Il soggetto dunque, così come la cosa in sé e la verità, non è altro che una costruzione arbitraria a posteriori dell’intelletto. 

 

Nietzsche mostra come un altro tentativo – fallace – di individuare nella realtà un soggetto risieda nell’attribuirgli la causalità di azioni:

 

« Soggetto: interpretato partendo da noi, così che l’io è considerato come soggetto, come causa di ogni azione, come autore » (ivi, aforisma 488, p. 274).

 

Così come l’uguaglianza degli stati, dei nostri atti non è altro che una costruzione postuma dell’intelletto, anche la nozione di causa rientra nel novero delle proiezioni umane sul mondo. In natura non esistono né cause né effetti, è l’uomo stesso che organizza le proprie esperienze attorno a questi concetti: la nozione di causa poi gli permette di attribuire a se stesso la responsabilità – e quindi la colpa – delle proprie azioni (cfr. Paolo Scolari, Nietzsche. Tracce morali, Mimesis, Milano 2018, in particolare il capitolo 4). Nulla di più illusorio, nulla di più menzognero: il soggetto, costruito a partire dalle false nozioni di causa e responsabilità, non esiste. 

 

Arriviamo al punto. Ciò in cui consiste propriamente l’io dunque non è altro che energia:

 

« Perfino il ‘soggetto’ è qualcosa di creato, una ‘cosa’ come tutte le altre: una semplificazione per definire l’energia, che pone, inventa, pensa, per distinguerla da ogni singolo porre, inventare, pensare » (Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit., aforisma 556, pp. 307-308). 

 

E ancora:

 

« Non ci sono soggetti-atomo. La sfera di un soggetto cresce o diminuisce costantemente; il centro del sistema si sposta continuamente (…). Non c’è una sostanza, ma piuttosto qualcosa che di per sé aspira a rafforzarsi, e che si vuole ‘conservare’ solo indirettamente (vuole superarsi) » (ivi, aforisma 488, p. 274-275).

 

Ciò che siamo è energia che vuole superarsi, il cui principio è dinamico, il cui unico desiderio è travolgere per inglobare, la cui unica meta è l’imporsi prevaricando. Questo siamo noi, queste sono le cose del mondo: innumerevoli volontà di potenza. Il mondo – così come la verità – non è altro che la risultante dell’incontro-scontro tra le volontà di potenza, necessitate a fagocitare tutto ciò che è altro-da-sé per imporvisi e superarsi incessantemente. 

 

E. Munch, "Ritratto di Friedrich Nietzsche" (1906)
E. Munch, "Ritratto di Friedrich Nietzsche" (1906)

 

Per il filosofo tedesco ogni volontà di potenza, della quale non fornisce mai una definizione esaustiva, tende al surplus di forza, ad un accumulo illimitato di potenza e quindi a prevaricare sulle altre volontà. La polemos, il conflitto, sono elementi cercati e voluti per accrescere la propria potenza. Vi è una sorta di istinto fisiologico ad imporsi, ad imporre la propria prospettiva a discapito delle altre. C’è un ulteriore aforisma della Volontà di potenza, il numero 656, che rende chiaro quanto appena affermato; questo recita: 

 

« La volontà di potenza può manifestarsi solo quando incontra resistenze: quindi cerca ciò che le resiste. L’appropriarsi e incorporare è soprattutto una volontà di impadronirsi, un formare, un imporre delle forme e un trasformare, finché lo sconfitto cade completamente in potere dell’attaccante e lo accresce » (Ivi, aforisma 656, p. 354).

 

Nietzsche allora individua nella polemos la chiave di lettura delle relazioni tra gli uomini. Con il filosofo di Rocken vediamo lo sforzo di perseverare nel proprio essere – il conato spinoziano, l’essenza ultima dell’uomo – infrangere la sfera personale per imporsi nel sociale cercando volutamente lo scontro. Non è qui la moderazione, la capacità di comprendere gli affetti e quindi di divenire causa adeguata delle proprie azioni ciò che in nuce occupa l’uomo, bensì l’agonismo, il bisogno di mostrare la propria forza ai danni del prossimo. In Nietzsche volontà di potenza è già scontro, è già tentativo di superarsi continuamente. Per concludere, nello pseudo aforisma 642 dice:

 

« Vivere si dovrebbe definire come una forma durevole di processo di verifica delle forze, in cui i diversi combattenti crescono in modo disuguale » (ivi, aforisma 642, pp. 349-350).

 

Gli individui, le varie volontà di potenza, sono definite combattenti in relazione al vivere. Vivere è combattere, per Nietzsche. E per combattere vi è bisogno di nemici. 

 

30 gennaio 2023

 








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