Dominare la necessità. La critica gramsciana al determinismo

 

Una lettura deterministica del marxismo rischia di portare a conclusioni che contraddicono gli stessi fini politici di tale dottrina. Da qui la necessità, indicata da Gramsci, di imboccare un'altra strada.

Luke Fildes, "Richiedente per un ricovero temporaneo" (1874)
Luke Fildes, "Richiedente per un ricovero temporaneo" (1874)

 

In un articolo di critica alla concezione marxista di Treves (La critica critica, pubblicata ne Il grido del popolo), Gramsci evidenzia l’errore di ridurre la dottrina di Marx «a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini», cioè di pensare la visione politica del filosofo di Treviri come se egli riducesse lo sviluppo storico ad una serie di forze indipendenti dall’azione e dalla volontà umana.

 

Una posizione che, se in certi casi potrebbe paradossalmente spingere maggiormente le persone all’azione (se si suppone che necessariamente la società cambierà in meglio, si potrebbe essere spronati a lottare affinché ciò avvenga), in generale ha il grande rischio di portare chi è deluso dall’attuale società alla rassegnazione. Una rassegnazione che, da un lato, spinge a non curare l’azione educativa di proselitismo politico – cosa contano dopotutto i singoli individui? Perché devo sudare per convincere delle persone a lottare se tutto è determinato da forze superiori? –, dall’altro, finisce per far trascurare un’analisi seria del concreto contesto sociale in cui si vive, passo necessario per capire come programmare l’azione politica. Per tali motivi, secondo Gramsci, con il pensiero di Treves «la dottrina di Marx divenne così la dottrina dell’inerzia del proletariato». Ciò che spinge i lavoratori a dire – seduti sulla poltrona – “prima o poi le cose cambieranno”.

 

Jean-Pierre Houël, "La distruzione della Bastiglia" (1789)
Jean-Pierre Houël, "La distruzione della Bastiglia" (1789)

 

Secondo Gramsci, invece, una lettura dialettica di Marx – capace cioè di prendere ciò che c’è di buono nel suo pensiero, di vivere «il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche» che vanno superate (Gramsci, La rivoluzione contro il capitale) – porta invece a scorgere il valore della sua analisi storica nel rapporto fra le coscienze degli individui e il contesto economico e sociale. Illuminanti a proposito sono le parole stesse del fondatore del PCI nell’articolo Il nostro Marx:

 

« Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, dell’attività cosciente degli individui singoli od associati. Ma le idee, lo spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. Un’idea si realizza non in quanto logicamente coerente alla verità pura, all’umanità pura (che esiste solo come programma, come fine etico generale degli uomini), ma in quanto trova nella realtà economica la sua giustificazione, lo strumento per affermarsi. Per conoscere con esattezza quali sono i fini storici di un paese, di una società, di un aggruppamento importa prima di tutto conoscere quali sono i sistemi e i rapporti di produzione e di scambio di quel paese, di quella società. Senza quella conoscenza si potranno compiere monografie parziali, dissertazioni utili per la storia della cultura, si coglieranno riflessi secondati, conseguenze lontane, non si farà però storia, l’attività pratica non sarà enucleata in tutta la sua solida compattezza. »

 

Perché l'azione, la volontà umana abbia effetto, bisogna che essa sia coerente col contesto in cui essa si situa. Non si può volere un rovesciamento della società in senso rivoluzionario e socializzare i mezzi di produzione se, ad esempio, la maggioranza della popolazione è contraria ad uno sviluppo socialista dello Stato. Al contempo, anche se si giunge ad una svolta socialista, non si può trascurare tutta una serie di fattori che potrebbero inficiare le proprie conquiste (ho una forza militare capace di proteggermi da attacchi esterni? Ho un programma economico e rapporti esteri che non mi lasciano isolato e senza risorse? Ho dirigenti capaci di gestire il nuovo tipo di società? Ecc.)

 

Ma, come è vero che la mancata conoscenza del contesto inficia ogni volontà, è altrettanto vero che la mancanza di coscienza sui fini, su ciò che si può fare, toglie qualsiasi possibilità di cambiare la società, anche se ci sono i mezzi necessari per il fine. Da qui deriva l'importanza data da Gramsci ad una rivoluzione culturale, capace di spingere gli uomini a fini coerenti, a quel fine – il comunismo – che prima neppure era conosciuto e pensato.

 

 

Di conseguenza, è inevitabile per Gramsci l'importanza della volontà per il cambiamento politico. Non nel senso del volontarismo astratto, del puro arbitrio, ma in quello della

 

« consapevolezza del fine, che a sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi per esprimerla nell’azione. Significa pertanto in primo luogo [...] organizzazione compatta e disciplinata ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi prati della cordiale fratellanze, inteneriti dalle verdi erbette e dalle morbide dichiarazioni di stima e d’amore. »

 

16 settembre 2019

 








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