Fuggi nella solitudine

 

Con la pandemia e le relative chiusure, dopo interi mesi passati in casa o fortemente limitate, molte persone hanno potuto riscoprire l’outdoor, lo stare all’aria aperta, il fuggire dalle grandi città, per stabilirsi in campagna o nelle terre alte. Se da una parte questo fenomeno lo si può interpretare come un volersi allontanare da tutte quelle attività a stretto contatto umano che possono implicare contagi, dall’altra sempre più persone trovano l’ambiente cittadino una forma di vita alienante e quindi cercano di recuperare il contatto con la natura. Nietzsche aveva intuito prima di tutti questa forma di alienazione, preferendo la solitudine della montagna al mercato della città. 

 

René Magritte, "L'impero delle luci" (1953-4)
René Magritte, "L'impero delle luci" (1953-4)

 

La città è il luogo per eccellenza del progresso, della cultura, dei servizi e delle opportunità. Da sempre le popolazioni più povere emigrano dalla campagna alla città per trovare lavoro e dignità. In città si vive stretti, quasi attaccati, ogni centimetro di terra viene utilizzato per una funzione e c’è la lotta per ottenerlo. In città c’è il fiuto dell’affare, si può trovare l’offerta e il lavoro della vita, ci si può svagare e si possono trovare moltissime persone, è un punto d’incontro per tutti coloro che cercano qualcosa. In città vivono i ricchi, coloro che possiedono la conoscenza e i mezzi per sfruttarla, qui possono trovare proposte culturali e sociali che soddisfino le loro esigenze. In città tutto è efficiente, veloce, razionalizzato, calcolato, programmato; nulla è superfluo, gratuito, disinteressato, lento, grezzo. La città è la patria dell’inquinamento, uno smog nauseante che in certi periodi dell’anno non fa respirare. Questo non sembra preoccupare le persone, ognuno ha la sua macchina e quando scende da essa corre a lavoro o al negozio, è al cellulare e guarda per terra. In città gli sguardi non s’incrociano, le orecchie non ascoltano, le parole sono contingentate. La città non è un luogo in cui si sta, ma un luogo in cui si fa. 

 

Tutte queste intuizioni le aveva già avute più di cento anni fa Nietzsche, come sempre troppo in anticipo per essere capito e quindi estremamente inattuale. La tecnologia forse ha reso ancora più estrema l’alienazione che nelle grandi città si è sempre percepita e proprio per questo siamo qui a sostenere che l’uomo autentico ha bisogno d’altro. Sempre più persone si approcciano all’outdoor e sempre più persone, soprattutto chi ha la possibilità economica, compiono un’emigrazione inversa: dalla città alla campagna.

Per Nietzsche l’uomo autentico deve poter assaporare la solitudine, quel monte degli ulivi che permette di entrare in contatto con i lati più oscuri e fragili della propria persona, senza solitudine e silenzio si rimane sempre nella superficie: un grande pallone gonfiato, che alla prima difficoltà inevitabilmente scoppia. Le nostre città sono sempre di più posti affollati, dove l’interazione sociale è capillare e dove non c’è spazio per rimanere da soli. Il vanto più osteggiato degli ultimi tempi non è più l’avere tempo libero (una volta era segno di un certo benessere, se una persona poteva campare senza lavorare tutto il giorno), ma l’avere mille attività e l’essere sempre impegnati. Ogni singolo momento libero è occupato da un corso di formazione, una maratona di serie tv, uno sport, l’occasione per un secondo lavoro. L’uomo è quindi anestetizzato dai mille impegni e si dimentica la finalità di quello che fa. L’essere impegnati è uno status da esibire, ma allo stesso tempo, io credo, un’occasione per fuggire da se stessi e dagli altri. Se siamo sempre impegnati non c’è più spazio per l’ascolto, per il silenzio, per la critica, per la crisi

 

« Amico mio, fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dal fracasso dei grandi uomini e punzecchiato dai pungiglioni degli uomini piccoli. […] Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose. » (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

 

Il mercato sembra essere il proprium della città, dove sono presenti i “grandi commedianti”, tutte quelle persone che si interessano a te e che entrano in relazione con te non per la vostra profonda amicizia, ma per la funzione che tu ricopri, per il possibile acquirente che rappresenti. Al mercato tutto è disposto secondo un ordine e c’è la guerra tra i venditori per conquistare i clienti: la vittima di tutto ciò è chi entra per comprare, che pensa che un acquisto gli possa risolvere un problema della sua vita (shopping therapy) e si atteggia come un signorotto medioevale che pensa di poter possedere e comandare le cose, solo perché può comprare ciò che gli pare e piace. Il mercato sembra essere il contra di tutto ciò che di autentico e filosofico si possa aspirare, è l’anti-filosofia, in quanto tutto è eccitato ed eccitante, ogni risposta sembra si debba darla all’istante, non c’è spazio per pensare, per verificare la reale utilità della cosa, tutto deve essere fatto di fretta perché altrimenti l’occasione scappa. Al contrario la filosofia è come un fiume che scorre tra le rocce e le modella lentamente, è un processo che ha bisogno di tempo e non può essere accelerato: l’uomo che vuole vivere autenticamente deve abbandonare il mercato e fuggire nella solitudine.

 

« Per via di questi subitanei, ritirati nella tua sicurezza: solo al mercato si viene assaliti con la richiesta di un sì o di un no. Tutte le sorgenti profonde vivono con lentezza la loro esperienza: esse debbono attendere a lungo prima di sapere che cosa è caduto nella loro profondità. » 

 

Nella vita dello Zarathustra è costante questa esigenza di fuggire dagli uomini, per ricercare la solitudine. Nel silenzio l’uomo si inabissa e riscopre se stesso. La solitudine del deserto, della montagna è qualcosa di lacerante che Zarathustra cerca, ma allo stesso tempo rifugge. Anche Zarathustra sente l’esigenza di condividere con i suoi amici quello che ha scoperto stando da solo: sembra quindi che le due dimensioni vadano a braccetto: per entrare più in profondità in una dimensione, bisogna aver sperimentato anche l’altra. 

 

In città si trovano i “saggi illustri”, coloro che vivono perché sono noti al popolo e sono alimentati dal popolo. Soddisfano le esigenze della plebe e sostengono quello che la plebe vuole sentirsi dire. Gli “spiriti veraci” cercano invece la solitudine, in quanto solo questo stato di abisso può produrre un autentico scavo interiore. Se l’intellettuale dipende da qualcuno è eteronomo nella sua ricerca, non segue la vocazione per la verità. In questo modo tutto ciò che viene proposto come culturale è sudicio e strumentale, deve sempre tenere conto del pubblico a cui fa riferimento. La produzione culturale dei saggi illustri non è una rivelazione, ossia qualcosa che scardina le vite e le coscienze, ma un prodotto, ossia è in vista di una vendita.

 

« Nel deserto hanno abitato, da sempre, i veraci, gli spiriti liberi, come signori del deserto; ma nelle città abitano, ben foraggiati, i saggi illustri, ‒ gli animali da tiro. Essi infatti, in quanto asini, tirano sempre – il carro del popolo. » 

 

 

Coloro che posseggono la conoscenza hanno in mano la verità e non si fanno mai scalfire dal dubbio e dalla critica interiore, Nietzsche li chiama i “sublimi”: sono uomini che più si mostrano sicuri di sé e più sono brutti. In città non c’è spazio per le fragilità, tutto deve presentarsi come felice e in ordine, coloro che mettono in dubbio la veduta predominante vengono esclusi e trattati come reietti. Quanta bruttezza possiamo scorgere in questi palloni gonfiati, così perfetti esteriormente, ma tanto vuoti interiormente!

 

« Oggi ho visto un sublime, un solenne, un penitente dello spirito: oh, come la mia anima ha riso della sua bruttezza! Col petto sollevato, simile a quelli che aspirano fiato, così se ne stava il sublime, tacitamente. Tutto addobbato di verità brutte, la sua preda di caccia, e ricco di vesti stracciate; molte spine aveva anche indosso ‒ ma non ho visto ancora una rosa. » 

 

Conoscere non è un’operazione meccanica, «come schiacciare le noci», al contrario la vera conoscenza ha come nemica la fredda ragione, quella piena di polvere e muffa delle biblioteche, ricerca invece il pensiero che è capace di farsi vita e di stare nel mondo. In città sembra mancare proprio questo: l’apertura alla vita che passa inevitabilmente dal silenzio, dalla solitudine, dalla noia e dall’incontro disinteressato. «Costoro si vantano di non mentire: ma essere impotenti alla menzogna non vuol dire ancora amare la verità. State in guardia!» 

 

Occorre rilevare però che, contrariamente a quanto detto fino ad ora, la città è il posto dove si è più soli, ma si fa esperienza di una solitudine malata, alienante: è la solitudine che si prova quando si sta con qualcuno, la forma più terribile di solitudine, in quanto si ha l’apparenza di poter condividere qualcosa, ma in realtà si è soli e vuoti. Quando si sta con qualcuno e non si condivide niente con lui, non ci si sente nemmeno a posto con se stessi, in quanto non si viene riconosciuti come persone; il silenzio relazionale che si crea è il rumore più assordante: «Il suo tacere però mi opprimeva; e l’essere in due in questo modo è, in verità, più solitudine che l’essere solo!» Nietzsche ci invita quindi alla vera solitudine, quella che permette di ascoltarsi, non la sua forma alienata che consiste nello stare soli mentre si è con gli altri. Questa logica va contro la concezione del tempo che si sperimenta in città: non si deve percepire più il tempo come qualcosa da sfruttare, contingentare e molto spesso da sopportare. Il tempo per l’“uomo superiore” è la trama su cui tessere la propria vita, l’occasione per un disvelamento della realtà, è il tempo che vivono le vergini vegliando mentre aspettano lo sposo: un tempo carico di vigilanza, attesa, silenzio, preoccupazioni, aspettative, paure: un tempo autenticamente filosofico.

 

« Io però e il mio destino ‒ noi non parliamo all’‘oggi’ e neppure parliamo al ‘mai’: per parlare abbiamo già pazienza e tempo e più che tempo. Perché esso dovrà pur venire una volta, e non potrà passare oltre. Che cosa deve venire una volta e non potrà passare oltre? Il nostro grande hazar, cioè il nostro remoto regno dell’uomo, il regno di Zarathustra di mill’anni. »

 

 31 gennaio 2022

 








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