Quanto è affidabile il nostro modo di conoscere?

 

Per aspirare ad un sapere il meno astratto possibile, è di fondamentale importanza mettere in rapporto il modo in cui la ragione opera e il materiale che le perviene come contenuto. Per indagare il significato ultimo del reale, non è possibile separare logica ed epistemologia, in quanto non è possibile fare a meno della validità dei ragionamenti e del rapporto tra essi e il reale. 

 

 

Non ci sono fatti a cui appellarsi per cui è possibile ottenere un pacchetto di teorie vero e completo che sia indipendente dal soggetto conoscitore. Ogni evento che si ritiene un fatto, in realtà è una teoria più o meno veritiera avanzata dal soggetto nell’interpretare una parte di realtà che egli studia. Non è possibile sostenere che la verità è la conformità del pensiero con i fatti, in quanto i fatti sono sempre un’interpretazione e non possono essere esperiti indipendentemente dalle strutture interpretative del pensiero stesso che cambiano da persona a persona. Ciò che il singolo ritiene come un fatto è l’aderenza di una determinata porzione di realtà al sistema che la stessa persona è arrivata fino a quel momento a teorizzare. I fatti sono ciò che il soggetto ritiene “normale”, in base al suo orizzonte di pensiero. Da queste ultime deduzioni è possibile scorgere che non si può basare la scienza filosofica sulla retorica dei fatti, in quanto pensiero e realtà non sono separati: essi si danno assieme, non è possibile ottenere come contenuto di pensiero una conoscenza della realtà, senza che questa venga in qualche modo influenzata dal soggetto conoscitore.

 

« Tutti questi fatti sono modi di pensare che accettiamo come validi in quanto si accordando con gli altri modi di pensare e con le altre parti di esperienza nostre e delle altre persone, che noi accettiamo come valide. » (D.G. Ritchie, Cogitatio metaphysica, in Philosophical studies)

 

L’importanza dell’epistemologia risulta essere capitale. Senza la possibilità di concepire il reale come razionale, ossia conforme alla logica che la stessa ragione può permettersi di indagare e senza potersi approcciare ad una teoria unitaria del reale, ossia comprendibile in un unico sistema, non è possibile approdare ad una visione metafisica.

 

Se da una parte la metafisica, intesa come compimento della realtà, è il fine verso cui muoversi indagando la validità del reale, da un altro punto di vista la non-contraddizione del reale, o in altri termini il portato di verità che sottende il reale, è ciò che precede qualsiasi tentativo di conoscenza. Applicando il principio di coerenza è possibile rifiutare le parti del pensiero che entrano in contraddizione, unificando gli asserti sotto una teoria maggiormente veritiera, rispetto a quella che si aveva precedentemente formulato. Il tentativo di conoscenza risiede nel portare ad unità le differenze che si presentano nell’esperienza: attraverso la comparazione tra eventi e cose di cui si fa esperienza è possibile formulare dei giudizi, i quali non sarebbero possibili se non fossero preceduti da un’unità che li mette in relazione. Nel compiere questa disamina del metodo conoscitivo si ritorna al meccanismo poc’anzi sottolineato: la conoscenza si rivolge ad un’unità che spieghi il reale, ma allo stesso tempo è mossa da questa unità che la spinge a ricercare il non-contraddittorio nella differenza.

 

David George Ritchie mette in evidenza come questo meccanismo di comprensione delle differenze nell’unità si traduca nell’appellarsi alla “realtà in generale”: ogni qual volta che l’uomo formula un giudizio non pretende altro che rifarsi alla realtà come “soggetto ultimo” del discorso. Si può constatare questo tipo di ragionamento quando si usa un giudizio di percezione impersonale per descrivere un giudizio che il soggetto stesso formula: si dice ad esempio che “il fuoco scotta” o che “quella pianta è verde”, al posto di dire “il fuoco mi scotta” o che “quella pianta mi appare verde”.

 

In che senso è possibile appellarsi alla realtà? Che cosa significa conoscere il reale? Che cos’è il reale? Per rispondere a queste domande, Ritchie parte dal constare che non c’è una separazione assoluta tra le menti dei singoli individui, in quanto altrimenti non sarebbe possibile la comunicazione e lo scambio di conoscenze: «se la conoscenza è possibile e se la conoscenza è comunicabile, ci deve essere una qualche identità alla base delle differenze delle menti umane individuali.»  (D.G. Ritchie, Metaphysics and epostemology, in Philosophical studies) Affinché sia possibile una conoscenza obiettiva della realtà, ci deve essere come presupposto un’unità tra tutte le menti. Allo stesso modo deve essere presente qualche tipo di rapporto tra la mente e la natura, altrimenti non sarebbe possibile alcuna conoscenza. Perché tutto ciò sia possibile, deve essere valido il principio di uniformità della natura, secondo cui date certe cause si avranno i medesimi effetti. Il principio di causalità permette di mettere insieme le sensazioni particolari e unificarle sotto un’unica teoria. Nel riconoscere questo meccanismo di conoscenza e nell’ammettere che non è possibile uscire da esso, Ritchie è portato ad affermare che la realtà non è ciò che esiste indipendentemente dalla conoscenza, ma l’unità di tutto ciò che le diverse menti ritengono valido

 

« L’oggettività della realtà non è ciò che è indipendente dalla mente, ma ciò che è valido per tutte le menti. » (D.G. Ritchie, Confessio fidei, in Philosophical studies)

 

Il portato conoscitivo non è qualcosa che si preleva al di fuori della mente e lo si porta all’interno. È possibile dimostrare tutto ciò ponendo come contenuto di conoscenza gli stati mentali dell’individuo: anch’essi sono qualcosa di reale, che può essere conosciuto dalle altre menti; sarebbe assurdo porre questi contenuti di realtà come indipendenti dalla mente stessa che li ha prodotti. La teoria secondo cui la conoscenza e la realtà sono due sfere chiuse appare a Ritchie come un’astrazione. Allo stesso modo si è di fronte ad un’astrazione quando si afferma che non si conosce mai la cosa per come è in sé, ma si ha solo un’idea di essa e si intende l’idea come qualcosa di non reale: questa inferenza porta a cadere nello scetticismo di Hume. 

 

Per Ritchie sostenere che una cosa non può essere conosciuta “in sé” significa sostenere che “non si può conoscere ciò che non può essere conosciuto”: è impossibile conoscere la cosa in sé, in quanto è impossibile conoscere qualcosa indipendentemente dalla mente; questo non significa però che non è possibile conoscere la realtà di quella determinata cosa. Anzi, il pensiero è proprio il posto dove è possibile avvicinarsi alla realtà ultima delle cose, anche se questo movimento è solo un eterno approssimarsi. Per questo motivo non si potrà mai avere la piena identità tra pensiero ed essere: non è possibile per ogni singolo pensiero essere identificato con il reale, in quanto quest’ultimo precede e influenza sempre il pensiero.

 

« L’identità di pensiero ed essere non implica l’identità di ogni pensiero particolare con ogni cosa particolare (ad esempio che la mia idea di cento dollari è cento dollari), ma che la realtà ultima delle cose può essere trovata solo nel pensiero. » (D.G. Ritchie, What is reality, in Darwin and Hegel)

 

La realtà diventa quindi il porre un determinato contenuto in modo coerente all’interno del sistema di pensiero del singolo individuo, il quale reclama il riscontro di coerenza anche nei sistemi di pensiero degli altri. 

 

« La coerenza non può essere fondamentalmente distinta dalla verità. L’ideale di conoscenza è l’impossibilità di pensare una contraddizione, o, in forma positiva, la necessità di concepire ogni parte in relazione con l’intero. Questo ideale di conoscenza è presupposto in ogni passo che compiamo per acquisire conoscenza ». (D.G. Ritchie, Metaphysics and epistemology, in Philosophical studies)

 

Per Ritchie il reale è ciò che passa il vaglio della coscienza della moltitudine e, attraverso il confronto dell’esperienza dei singoli individui, si impone come ciò che è meno contraddittorio. In questo senso la rappresentazione della realtà che proviene dal pensiero comune e quella proveniente dall’ambiente scientifico sono completamente diverse: ciò che le menti scientifiche arrivano a concepire è in maggior grado reale, rispetto alle menti comuni, in quanto lo scienziato ha a disposizione una maggiore conoscenza della razionalità dell’universo. 

 

L’universo è «una moltitudine di centri di cerchi, riconoscendo che ognuno è il centro del suo proprio universo ‒ allo stesso modo per cui ognuno di noi vede un diverso arcobaleno, la cui rappresentazione è il risultato di inferenze e ipotesi.»  (D.G. Ritchie, What is reality, in Darwin and Hegel) Ogni individuo non può uscire dal suo stesso universo, ossia dal suo pensiero, ma allo stesso tempo è parte di un unico universo che è il Tutto. La totalità dei cerchi è l’Io trascendentale, Dio, soggetto e oggetto che si identificano, ciò a cui non è possibile identificarsi con il proprio pensiero e quindi ciò che non può essere oltrepassato. 

 

« La conoscenza della realtà è così l’“Io” giunto a conoscere se stesso, ossia il suo contenuto. “Dio” deve essere pensato come l’“Io” completamente attualizzato, l’assoluto “soggetto-oggetto”. Noi siamo consapevoli che non potremo mai conoscere niente pienamente. L’“Io” si sforza sempre per una più completa realizzazione, cercando di diventare reale, nel senso morale, cioè essere più conforme a ciò che dichiara di essere. » (Ivi)

 

16 maggio 2022

 








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