Spacciare favole per scienza. Su metanarrazioni e fine della storia

 

Una nota epistemologica a margine dell’opera monumentale di Graeber e Wengrow, L’alba di tutto.

 

 

L’alba di tutto si colloca nel terreno della filosofia.

 

Questo è inevitabile (benché spesso questa inevitabilità non sia esplicitamente saputa): qualsiasi comprensione, approfondendosi, si fa sempre più visione di insieme – si fa teoria non solo della parte ma anche, e soprattutto, della totalità in cui essa è compresa.

 

Eppure, il terreno filosofico su cui si muovono le scienze contemporanee, e con cui Graeber e Wengrow si confrontano polemicamente, fa sì che esse scienze non solo non sappiano esplicitamente del loro carattere intrinsecamente filosofico, ma che tale carattere sia esplicitamente negato.

 

Abbiamo capito bene? La filosofia, che originariamente è l’indicazione che la verità è coglibile solo nella dimensione del tutto, oggigiorno dice essa stessa alle scienze che non devono essere filosofiche, che non devono rivolgersi all’insieme. Come si genera questo paradosso?

 

Innanzitutto ascoltiamo Graeber e Wengrow.

 

« Dagli anni Ottanta del XX secolo, i teorici sociali sono abituati ad affermare che viviamo in una nuova era «postmoderna», caratterizzata dalla diffidenza verso le metanarrazioni. Spesso questa asserzione si usa per giustificare una sorta di iperspecializzazione: se si allarga il campo, o se solo ci si confronta con colleghi di altri settori, si rischia di passare per individui che vogliono imporre un’unica visione imperialistica della storia. Per questa ragione, di solito l’«idea del progresso» viene proposta come esempio lampante del modo in cui abbiamo smesso di concepire la storia e la società. »

 

 

In questo passo sono contenuti tre elementi fondamentali: il modo in cui la nostra epoca si concepisce – differenziandosi dalle altre – è indicato dall’aggettivo postmoderno, che ha a che fare con il rifiuto delle metanarrazioni; questo scenario implica l’iperspecializzazione e pretende di escludere l’imperialismo della propria concezione; così, ad esempio, sarebbe divenuta desueta l’idea di progresso.

 

Quello sulle metanarrazioni non è un discorso solo tra specialisti e nemmeno solo un discorso “culturale”, tra gente “di cultura”; è divenuto popolare e noto nella forma di fine delle ideologie: il modo in cui si sono presentati i nuovi partiti negli ultimi anni è quello di non essere né di destra né di sinistra, cioè di essere post-ideologici.

Le ideologie, le metanarrazioni, cioè le grandi visioni del mondo che pretendevano di scorgere o di dare un senso alla storia del mondo avrebbero portato ad esiti catastrofici, come sarebbe stato per i fascismi e per i comunismi – si sostiene. Al loro posto avremmo allora avuto ciò che si esalta quotidianamente: la concretezza, il buonsenso, i fatti, le evidenze, ecc.

Insomma – continua il discorso mainstream –, in questo mondo senza dèi né morale (moralismi, si dice oggi) bisogna far girare l’economia e poi ognuno fa quel che vuole, è libero di fare quel che vuole. Ecco il mondo libero, delle democrazie liberali, insomma. Si è preteso un mondo privo di ideologie o metanarrazioni, un mondo in cui ognuno è libero di scegliersi quel che vuole senza che nessuno debba dirgli quale sia il senso della vita, perché la vita un senso non ce l’ha, se non quello che le si dà. Ognuno è in base a quel che sceglie, in base al merito – per usare un’altra parola d’ordine.

 

Poi però, pian piano, ci si è accorti che questa assenza di ideologia, che questa concretezza democratica funzionale qualche difettuccio nel buonsenso forse mostrava… tanto da costringere a chiedere che cosa siano la concretezza e il buonsenso… e se questa neutralità funzionale del liberalismo proprio così neutrale non fosse.

Il postmoderno avrebbe dovuto non essere imperialista perché non portatore di una visione onnicomprensiva, ma che si potrebbe rivelare imperialistica proprio perché spacciata per naturale, realistica, fattuale.

 

 

Mentre ci diciamo da decenni che non ci sono più narrazioni, da ultimo dovremo di nuovo affermare che la narrazione dominante è quella data per ovvia, evidente.

E si tornerebbe in realtà a dirlo di nuovo, poiché questo processo è quel medesimo già comparso ripetutamente nella storia, per cui ci si accorge che quanto è ritenuto fatto o evidenza è tale solo come risultato, o che l’assenza di pregiudizio è cortocircuito linguistico che misconosce che un pregiudizio è tale solo per un giudizio successivo che ha superato l’errore del pregiudizio e che diventerà a sua volta un pregiudizio per un ulteriore giudizio migliorato.

 

Si è creduto ancora una volta che senza narrazioni la vita avrebbe la forma di una vita senza narrazioni. E così avrebbe determinato la fine della storia.

 

Ma quel che è ancora più occultato è che il liberalismo condivide la stessa radice di quelle concezioni del mondo totalizzanti che vorrebbe superare (il fascismo, il comunismo, ecc.).

Il fascismo, il comunismo e lo stesso liberalismo sono postmoderni in quanto affermano che non esiste la verità – ossia una verità da rilevare – e che, proprio per questo, non c’è ragione alcuna perché non sia la grandezza degli eccezionali (dell’uomo forte), l’organizzazione delle masse o l’intraprendenza dei pochi a stabilire le regole del dominio degli uni sugli altri.

 

Quale la concezione della verità, oggi? Quale verità oltre la favola? Questa l’imprescindibile questione che oggi aspetta di essere tematizzata pubblicamente.

 

***

 

Un po' del nostro lo metteremo mercoledì 19 aprile, alle 21, con il consueto appuntamento di Ottosofia. 

Protagonisti saranno realismi, positivismi vari e un Hegel impertinente!

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18 aprile 2022

 








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