Un simbolo del disorientamento del sistema dell'istruzione in Italia.
A che mai potrà servire l’attuale Esame di Stato, così come è strutturato? Prendiamo il caso dei licei.
La Prima prova è l’ennesima ripetizione di una prova che si è svolta per cinque anni. A che pro?
Lo stesso dicasi per la Seconda prova, con l’aggravante che vincola a certi contenuti a discapito della possibilità di far spaziare la didattica su interessi che emergano nel gruppo classe, come, per esempio, le conquiste della fisica del Novecento.
Quindi, di nuovo, a che pro? Conoscenze e competenze non sono state verificate per cinque anni?
Il Colloquio spesso rileva le inadeguatezze dei docenti: dovrebbe essere l’esercizio di competenze tramite lo sviluppo interdisciplinare di un discorso a partire da uno stimolo, invece diviene spesso la solita interrogazione in cui si verificano conoscenze su almeno otto discipline dai programmi vasti. Inutile follia.
Per di più, cosa potrà mai cambiare del livello di conoscenze e competenze dello studente nei quindici giorni che trascorrono tra la fine della scuola e l’Esame di Stato?
Si sente dire che “dovrebbe giocarsela”? Oltre 1.500 giorni a fronte di qualche giorno? Un minimo di serietà per favore…
A queste ovvietà si è soliti obiettare due aspetti che sono effettivamente rilevanti, ma che non c’entrano nulla con la somministrazione dell’Esame attuale.
È importante verificare, grazie a una commissione composta da docenti esterni, che effettivamente si siano raggiunti certi obietti. Certamente, ma perché questa verifica dovrebbe ricadere sugli studenti? È evidentemente assurdo che siano loro a pagare eventuali inadempienze o incompetenze dei propri docenti.
Non solo: sono noti i diversi stili, approcci, preferenze, fissazioni nell’enorme varietà dei docenti e come incidano nel criterio di valutazione. Sono gli studenti che devono pagare questa inevitabile arbitrarietà?
L’altro aspetto rilevante consiste nell’effettiva importanza di un rito di passaggio, di una prova simbolica, conclusiva. Ben venga: ma perché dovrebbe comportare tutta l’arbitrarietà della docenza e pesare più del percorso svolto in cinque anni? Non ha alcun senso.
Avrebbe invece senso una prova esperta conclusiva, personalizzata: un progetto, un paper, un artefatto, un video, un podcast, ecc.
Tal prova esperta darebbe quini alcuni punti in più, come avviene con la tesi di laurea. La media dei voti al termine della quinta potrebbe essere tradotta in centesimi: per esempio una media del 9,2 potrebbe corrispondere a 92. La prova esperta potrebbe valere alcuni punti che consentano di arrivare al 100 o di ottenere la lode.
Lo so, state ora pensando all’obiezione delle obiezioni, a quell’adagio ricorrente: devono imparare ad affrontare le difficoltà, perché la vita lì fuori è difficile. È così familiare che suona sensato. Ma sensato non è per nulla. Perché nel mondo ci sono dei criminali, dovremmo agire nei loro confronti da criminali? Dovremmo essere per loro dei furbi, dei furfanti, dei farabutti?
Non dovevamo dare l’esempio?
Quindi, fatiche, difficoltà ed errori sempre si presenteranno, e sempre sotto nuove forme, perché il continuo miglioramento di sé, la continua crescita di ciascuno consiste in essi. Ma essi si sopportano, si superano e perfino si desiderano, se con essi, appunto, si cresce. E crescere vuol dire non ripetere le fatiche inutili, le difficoltà evitabili, gli errori già conosciuti come tali.
Chiudiamo quindi con un aspetto accidentale, ma per nulla marginale. Nel secondo periodo del quinto anno gli studenti non solo devono studiare programmi sterminati che poi dovranno ricordare, spesso nozionisticamente, all’Esame di Stato; ma devo prepararsi ai TOLC, cioè agli esami d’accesso alle facoltà alle quali vorranno iscriversi. Manuali su manuali, nozionismo su nozionismo. Mesi e mesi nei quali ingurgitano informazioni che saranno più o meno diligentemente sputate per sbrigare gli esami a cui sono sottoposti.
Non dovevamo insegnare l’amore per il sapere?
11 luglio 2024
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