La rivoluzione dialettica di Antonio Gramsci

 

Gramsci è stato indubbiamente uno dei più grandi politici del XX secolo, nonché un grande filosofo, capace di approfondire e sviluppare il marxismo in un senso libero da qualsiasi dogmatismo e adatto al contesto del suo tempo.

 

 

Studiare il pensiero di Antonio Gramsci non è facile: non c'è un libro unico in cui si delinei la sua dottrina e il suo pensiero. Il pensatore sardo è stato, prima di tutto, un uomo politico, capace di inserire le sue riflessioni sempre in un contesto d'azione nella società e specie con la massa dei lavoratori, nella consapevolezza che solo così il mondo delle idee avrebbe avuto un effetto concreto nel mondo fisico. Per questo, la sua scrittura è stata spesso legata al contesto storico e politico in cui era inserito, sviluppatasi fra i vari articoli che ha scritto dall'inizio della prima guerra mondiale fino all'incarcerazione. Certo, poi sono venuti i Quaderni del carcere, ma anche qua il lavoro di studio è stato arduo: a parte alcuni quaderni più sistematici, la trattazione è complicata, con i differenti filoni tematici più volte interrotti e ripresi.

 

Avvicinarsi al suo pensiero, specie per chi non lo conosce, richiederebbe almeno una buona introduzione e una raccolta di scritti che aiuti ad avvicinarsi alle linee generali del suo pensiero: un lavoro ben svolto dalla raccolta La taglia di Gramsci. Idea e prassi della rivoluzione, libro edito da Novaeuropa Edizioni. Una serie di scritti che – per quanto si concentri su alcuni contenuti gramsciani, fra cui in particolare quello della rivoluzione – ben delinea alcuni elementi cardine della riflessione di Gramsci, utili nell'approcciarsi poi alla lettura di altri saggi.

 

Da uomo attento a quello che era il mondo delle masse e degli sfruttati, Gramsci non poteva che essere interessato a quello che era il mondo del marxismo, nonché a quello sviluppo del pensiero comunista che era stato portato avanti da Lenin e che, nel 1917, iniziava a concretizzarsi nella speranza di un mondo nuovo. La rivoluzione d'ottobre non è, tuttavia, mostrata come la risoluzione definitiva alla crisi del capitalismo, né come un punto d'arrivo nella lotta dei lavoratori:

 

« Nessun comunista ha mai promesso ai lavoratori di realizzare il regno di Bengodi in 24 ore; nessun comunista ha mai pensato di realizzare il regime comunista in sei mesi. I passaggi dal regime schiavista al feudale, dal regime feudale al regime capitalistico, sono costati all’umanità sforzi enormi per lunghissimi periodi. Anche oggi nei regimi capitalisti più fiorenti vi sono residui dell’economia feudale. Non vi è alcuna ragione per pretendere che il comunismo si realizzi invece con un colpo di bacchetta. » (L'Urss verso il comunismo)

 

La lotta per una società in mano ai lavoratori è appena cominciata; anzi, prima di riuscire a ottenere i frutti del suo sviluppo, dovrà passare per più fasi intermedie e piene di sacrifici. Non solo per il fatto che i primi tentativi sono sempre insidiati da errori o dubbi, o che lo sviluppo del nuovo sistema economico e sociale avrebbe richiesto un processo fatto di passi graduali (si veda la necessità secondo Lenin di un iniziale capitalismo di Stato e lo sviluppo della Nep) e un lavoro ideologico ed educativo fra le masse che permettesse il costante appoggio della maggioranza del popolo, ma anche perché il mondo capitalista non avrebbe accettato facilmente di esser sconfitto.

 

Ma come un cambio di società non si esaurisce nella presa del potere, così è assurda quella propaganda giornalistica che al tempo declamava, a solo qualche anno dalla rivoluzione, il fallimento del comunismo. Molto spesso, nascondendo come molte sofferenze fossero causate dal capitalismo stesso:

 

« Per colpa degli eserciti bianchi, – cioè borghesi, liberali, democratici – della Francia e dell'Inghilterra, i contadini non hanno più coltivato la terra, le ferrovie sono state distrutte, le fabbriche abbandonate, le città saccheggiate; e se, malgrado tutto, il regime soviettista ha vinto, ciò significa di per se stesso che esso aveva il consenso della immensa maggioranza del popolo russo. » (Ivi)

 

E così, mentre gli stessi giornali borghesi incensavano quella democrazia che, in regime capitalista, democrazia mai lo era stata, se per essa si intende il «governo delle masse popolari», essi non si rendevano conto degli avanzamenti che il primo stato socialista iniziava a sviluppare in quegli anni pieni di difficoltà. Non solo: quella stessa stampa era, per ignoranza o ipocrisia, incapace di rendersi conto delle enormi differenze fra le conquiste sociali che avvenivano in Unione Sovietica e quelle nel resto dell'Europa. «Per il Mondo [quotidiano italiano], una cooperativa, un sindacato, un monopolio industriale sono uguali sempre e dappertutto. Per noi una cooperativa in regime fascista è molto diversa da una cooperativa del 1919-20, e questa era molto diversa da una cooperativa russa attuale» (Russia, Italia e altri paesi). Questo perché tutte le conquiste che avvengono in regime capitalistico, se si spingono troppo oltre, sono «destinate all'annientamento» da quello stesso potere incapace di vedere minate le sue stesse fondamenta. Cosa che non può accadere in Russia, dove «la classe operaia al potere, la classe operaia che controlla e dirige le parti essenziali dell'economia nazionale, le leve di comando di tutta la struttura economica della società russa», ha tutte le capacità per limitare e annullare la forza repressiva dei capitalisti.

 

Per quanto attento osservatore della situazione russa (sul cui approfondimento consiglio la lettura dei vari scritti di Gramsci a riguardo), Gramsci non va tuttavia etichettato in senso semplicistico come marxista-leninista, soviettista o qualsiasi altro termine gli si voglia appioppare. Per quanto il suo pensiero si trovi concorde con le posizioni leniniste e considerarlo ostile nei confronti dell'Unione Sovietica sarebbe una deformazione della sua riflessione, i suoi stessi scritti evidenziano come il suo pensiero sia qualcosa di dialettico: mai definitivo, mai fermo in un punto dogmatico.

 

 

Basti pensare ad una delle prime analisi della rivoluzione dei bolscevichi, quando il pensatore sardo afferma che si è trattato di una «rivoluzione contro il Capitale di Marx»: non in quanto contraria al comunismo o agli obiettivi marxisti, ma perché capace di innestarsi in un paese semi-feudale, mentre gli scritti di Marx prospettavano che essa sarebbe dovuta avvenire in un paese dal capitalismo avanzato. Cosa che non toglie che i rivoluzionari comunisti fossero marxisti:

 

« Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. [...] Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. »

 

Essendo dunque rivoluzionari dialettici, i bolscevichi sono stati capaci di portare avanti ciò che vi era di valido in Marx, contestualizzandolo e approfondendolo nel contesto russo, dove sono stati capaci di portare il popolo russo «a contatto con le esperienze di altri proletariati» e far così vivere, nel pensiero, «la storia del proletariato, le sue lotte contro il capitalismo, la lunga serie degli sforzi che deve fare per emanciparsi idealmente dai vincoli del servilismo che lo rendevano abietto, per diventare coscienza nuova, testimonio attuale di un mondo a venire.» Col risultato di aver dato gradualmente la coscienza al popolo delle contraddizioni della società capitalistica, rendendogli così concreta la necessità del passaggio ad una nuova società.

 

È una dialettica, quella che Gramsci promuove, che si nota già nello stesso modo in cui l'autore parla dei differenti fatti che avvengono in Russia, in Italia e in altri paesi. Un modo di riflettere che mostra la capacità di cogliere ciò che c'è di valido e non contraddittorio fra i differenti pensatori, anche fra quelli che fieramente si ponevano su posizioni anticomuniste. È ben evidente, specie negli scritti giovanili, l'influenza idealista, crociana e gentiliana, relativamente all'importanza della coscienza soggettiva e del pensiero dell'uomo in relazione all'azione pratica. Ogni azione concreta che abbia un valore è innanzitutto l'espressione di un'idea non contraddittoria, coerente in se stessa: questo Gramsci lo aveva bene in mente e i suoi studi dell'idealismo lo avevano aiutato a sviluppare questa concezione. 

 

Un interesse che non si esime però dall'evitare e criticare quelle derive autoritarie che, in politica, mostravano i principali pensatori idealisti del suo tempo. Per esempio, non era ovviamente condivisibile dal fondatore del PCI la posizione politica gentiliana verso il biennio rosso, visto come azione che colpiva «al cuore l'organismo economico amministrativo dello Stato» (Giovanni Gentile, Origini e dottrina del facismo), rivelandosi così un colpo imperdonabile "all'organo detentore dell'eticità", come afferma Emiliano Alessandroni nella prefazione a La taglia della storia. Motivo per cui, secondo Gentile, bisognava agire con forza contro questa minaccia ed esser pronti, tramite "squadre d'azione", a «opporre violenza a violenza per reprimere ogni attentato all'ordine pubblico e ai poteri che possono garantirlo», evitando così di colpire i «valori morali della Monarchia e dell'Esercito» (Giovanni Gentile, Scritti per il Corriere). Con la conseguenza che, agli occhi di Gentile, il fascismo, avendo saputo affrontare la minaccia rossa, si era rivelato essere quella creazione spirituale necessaria alla salvezza dello Stato italiano. Un'unità dello Stato dunque che, nella visione gentiliana, è ben più particolaristica dell'unità indicata dalla filosofia gramsciana, capace di prospettare una società sì unitaria, ma di un'unità basata sulla dialettica e il confronto fra le masse, non sull'autorità che impone forzatamente un legame fittizio. Va evidenziato, tuttavia, che, riprendendo l'analisi di Alessandroni, se nel discorso politico in Gentile «la retorica tende a dominare l'ordine del discorso ben più della logica», a livello teoretico «l'attualista mostra molti meno cedimenti, quanto a robustezza argomentativa». Una differenza ben colta da Gramsci, capace così di assumere nel suo pensiero ciò che era valido, evitando invece gli elementi più contraddittori (lo stesso discorso si potrebbe fare, seppur con differenze, con il rapporto col pensiero crociano e di molti altri pensatori).

 

 

Evitare il dogmatismo significava così per Gramsci evitare qualsiasi fossilizzazione del pensiero: se era marxista-leninista, lo era non "per partito preso", ma perché, fino ad ora, quella era la proposta d'azione e di pensiero che gli sembrava più coerente, meno contraddittoria a tutto il resto che era stato proposto. Una proposta capace di evitare sia il volontarismo astratto, inteso come spinta all'azione senza una visione coerente, sia il determinismo o, per usare un termine che ricorre spesso negli scritti, il fatalismo: la concezione per cui la rivoluzione sarebbe avvenuta meccanicamente, indipendentemente dall'azione di singoli uomini. Le cose non vengono da sé: un cambio di società – dove all'idea della libertà individualistica si sostituisca quella della libertà vera, della piena affermazione dell'individuo che solo un nuovo contesto di solidarietà e azione collettiva può permettere – richiede l'azione cosciente e coerente di una moltitudine di persone, capace di organizzarsi e lottare per ciò che ha valore.

 

25 febbraio 2020   

 








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